Da qualche tempo mi sta capitando sempre più spesso di utilizzare il termine “amaurizzazione” in riferimento a quegli attaccanti sulle quali si ripongono grandi aspettative ma che hanno la sinistra tendenza a perdersi strada facendo, tra alti (pochi), bassi (troppi) e gol (nulli). L’ultimo Llorente, tanto per fare un esempio, si era pesantemente “amaurizzato”, pur non facendo mai mancare il consueto apporto in termini di generosità e sportellate. Così come lo stesso “paziente zero”: 12 gol la prima stagione dopo essere arrivato da Palermo con le stimmate di nuovo Drogba (Guidolin dixit), 5 la seconda (in 30 presenze), 0 nei (ne)fasti delneriani, prima di essere spedito a Parma senza troppi rimpianti. Gli stessi che non ebbe Conte ad avallare la cessione, nel gennaio 2012, ad una Fiorentina molto al di sotto della linea di galleggiamento per rimanere in Serie A.
Eppure, come si suol dire, “le vie del Signore sono infinite”. Soprattutto durante la Pasqua di quell’anno, quando le resurrezioni furono contemporaneamente tre. Di quella canonica ne hanno scritto in tanti e quindi lasciam perdere. Perché sono le altre due quelle che ci interessano. E’ il 7 aprile quando a San Siro, a far visita al Milan capolista, arriva una Fiorentina letteralmente sull’orlo del baratro. A sette giornate dalla fine, cercare i punti salvezza sul campo della squadra di Allegri, impegnata a tener fronte all’arrembante rimonta della prima Juve contiana, non sembra la migliore delle idee. Tanto più che, nel primo tempo, i rossoneri trovano il modo di sbloccarla grazie a un (discutibile) rigore di Ibra. Nella ripresa Jovetic pareggia i conti sfruttando un’indecisione della retroguardia milanista e facendo esultare i milioni di juventini che stavano fiutando l’occasione propizia: un pareggio avrebbe significato accorciare ulteriormente in classifica, una sconfitta meneghina sarebbe valsa addirittura il primo posto in caso di vittoria a Palermo. Ma la seconda rientrava nell’ambito del “troppa grazia”. Fino al minuto numero 88, quando a concretizzarsi è la resurrezione numero due:
A distanza di anni lo posso confessare. Quella è stata una delle poche volte in vita mia in cui ho gufato contro un avversario. E, ancora oggi, un pò me ne vergogno, ritenendola una delle azioni più abbiette di cui un appassionato di sport (tifoso o meno) possa macchiarsi. Eppure credo di non aver mai esultato per un gol di Amauri come in quel momento, nemmeno in occasione di un altro suo gol al Milan quando vestiva la maglia giusta: perché è lì che presi definitivamente coscienza che eravamo risorti anche noi, che quello era l’anno buono per tornare lì dove mancavamo da un pò.
Poche ore dopo i ragazzi diedero forma concreta a quelle che erano, appunto, solo sensazioni o, per meglio dire, speranze: 2-0 al Palermo e primo posto in solitaria per non mollarlo più.
Da allora fino ad oggi, fatta salva l’eccezione di un inizio di stagione maledetto che ha poi finito con il confermare una regola a noi tanto cara. Quella che ci vede risorgere sempre dalle nostre ceneri: magari non dopo i canonici tre giorni ma dopo ben dieci dimenticabili partite. Anche in un campionato come questo in cui ci sarà da soffrire e lottare fino alla fine contro un Napoli tosto, forte e tignoso come quel Milan. Forse anche di più. E visto che la Pasqua ci ha spesso detto bene, peccato che, a questo giro, ci sia toccato pagare il tributo alla Nazionale di quell’Antonio Conte che, grazie al gol più importante dell’Amauri (non) bianconero, ha dato inizio a tutto quello che è già storia.
Perché non sempre “amaurizzazione” è sinonimo di sciagura. In qualche caso significa semplicemente resurrezione. La sua (non del tutto) e la nostra (completamente).
Claudio Pellecchia.