C’è tanta voglia di qualcosa di diverso, ed è per questo che l’analisi della prima uscita ufficiale della Juventus del corso Sarri si protrae ancora, anche tra coloro che hanno coscienza del fatto che Juventus-Tottenham non potesse lasciare che un’occhiata di larga veduta sulla matrice che ha intenzione di costruire il nuovo tecnico, e una serie di lampi in chiaroscuro che inficiano (quasi a livello di preconcetto) sul giudizio personale dei singoli. Che poi nel calcio esistano le categorie di status individuale, non doveva per forza spiegarcelo Allegri con il Gabbione: vincere, perdere, ribaltare una partita in quattro minuti (ciò che Sarri vuole portarsi dietro della gestione precedente, chi non ha pensato a Wembley al gol di Ronaldo?), pareggiare, prendere un gol da metà campo al novantaquattresimo, sono tutti elementi che fanno parte di un extra che nel calcio non si può calcolare e che spesso piega il razionalismo spinto delle analisi tattiche a un esito che avrebbe potuto essere diverso, ma che diverso sarà soltanto se si comprende che i calciatori sono tutti diversi, che non valgono tutti uno, e che quindi il risultato di campo (che non è necessariamente lo score) è un obiettivo di tendenza nel medio periodo. Per cui Cristiano è di un altro pianeta sempre e comunque – atletico, tecnico, mentale – così come Higuain con due palle di un certo tipo a disposizione ne metterà nel sacco almeno una anche nella partita delle Legends che si disputerà nel 2032, così come Cancelo e De Sciglio rappresentano le due categorie opposte del moderno scontro tra calcio creativo e calcio applicato. Sarri, se posso dirlo, fa bene fin che può a tenersi nel mezzo, lasciandoci il dubbio che la verità non stia né da una parte né dall’altra, conquistando i calciatori attraverso la fluidità e la padronanza della manovra piuttosto che con fuochi d’artificio o morbose reiterazioni.
C’è tanta voglia che tutto debba accadere in fretta, ed è per questo che è pericoloso infastidirsi ogni volta che succede qualcosa che riporta all’esperienza precedente. La Juve del primo tempo è sembrata per lunghi tratti una delle tante Juve di Allegri di inizio stagione, prima che si arrabbiasse o spaventasse per i rischi difensivi. Le soluzioni (e le conclusioni) di Sarri però sono opposte e questo non può che far piacere a chi ha sempre chiesto di preoccuparsi prima per ciò che si può migliorare davanti piuttosto che a ciò che si può cercare di minimizzare dietro (cioè si hanno benefici dietro se si fa meglio davanti e mai viceversa). Cioè Sarri, e lo ha detto espressamente, ritiene di poter difendere meglio aggredendo meglio, ovvero cancellando il sentimento di paura che può rendere un gol al passivo una montagna invalicabile. Metodo Sarri che contro il Tottenham non ha potuto esaltare il gioco dei uno/due tocchi, del muovere la palla muovendo gli uomini per muovere l’avversario e tutte queste belle cose che il 21 luglio lo juventino non vide neppure nel devastante di impatto di Conte a fronte della Juve di Delneri. L’amichevole ha però mostrato la radice del calcio di Sarri, con una sola eccezione che lascio al paragrafo finale riguardante Bernardeschi: il suo calcio è un calcio che ha concetti tradizionali da esprimersi in velocità e senza quella che può essere la trappola più pericolosa per la sua compiuta realizzazione, cioè l’atletismo a tutto campo e la voglia di far valere la supremazia dell’organico attraverso gli uno contro uno, anche perché in Europa questo ultimo aspetto – nel momento topico degli scontri diretti – tende naturalmente ad annullarsi. Insomma, si è intravisto un piccolo reset ed è un ottimo punto di ripartenza: i difensori fanno i difensori, i centrocampisti fanno i centrocampisti e gli attaccanti fanno gli attaccanti. Se i reparti sono sembrati slegati, è perché appunto esiste il ruolo dell’allenatore, e che questo allenatore abbia un suo chiaro punto di approdo accettando eventuali correttivi che neanche lui può oggi immaginare. Approdo non semplice perché servirà armare la squadra di tutto ciò che serve intorno al vertice basso, tanto più se un calciatore particolare e non totale come Pjanic, perché se Sarri può accettare di soffrire è anche vero che Sarri – per come è fatto – non può accettare di farsi soffocare.
C’è tanta voglia di rifinitura, di giocate ficcanti, possibilmente in verticale o con quella sensazione che si svolgano con l’armonia della squadra che sa già come andrà a concludersi l’azione senza che l’avversario possa adottare volta per volta gli strumenti giusti. Ed è per questo che le aspettative di cambiamento sugli ultimi 40 metri sono elevate, anche tramite il baricentro e la svelta regia avanzata del perno di centrocampo (mi domando: chi sarà il vice di Pjanic? mi rispondo: vedremo un nuovo Bentancur). Ed ecco che la fretta gioca brutti scherzi al tifoso medio di fronte a un colpo di testa di Mandzukic verso la porta avversaria in 50 minuti di gioco, ed ecco il terrore negli occhi di chi vive male i retropassaggi, di chi vede Matuidi sbagliare tre controlli di fila (e infatti Allegri lo toglieva dalla costruzione a costo di mandarlo in luoghi di maggiore disagio), di chi non accetta il concetto di cross, di chi non capisce perché quattro tocchi, quando puoi farne due. Il calcio è anche questo nelle piccole cose, Sarri però è chiamato a lavorare come primo step sulle cose grandi e deve prendersi il giusto tempo, sapendo che non sempre coincide con il tempo necessario. Per esempio Bernardeschi oggi rientra ancora nella schiera dei jolly, la strada verso la specializzazione è lunga e la versione ibrida della gara di Singapore deve valerne proprio la pena perché con gli ibridi e le scivolate di reparto e le scalate asimmetriche lo juventino ha già dato. Con quelle mansioni Ramsey fa il titolare e Douglas Costa la solita carta della disperazione. Fossi in Sarri, comunque, non delegherei completamente neanche gli ultimi 30 metri, e infatti nutro la sensazione che non accadrà. Neanche il tridente fosse un giorno composto da Ronaldo, Neymar e Icardi. Mai dire mai, l’unico mio messaggio a Maurizione nostro.
Luca Momblano