In una lettura simbolica del calcio poche altre figure più dell’allenatore e del generale dell’esercito sono accomunabili con successo.
La guerra, diceva Von Clausewitz nel suo Della Guerra, 1832, non è altro che un duello su vasta scala, in cui la moltitudine di duelli particolari può essere rappresentata come lo scontro tra due lottatori che vogliono prevalere l’uno sull’altro con i mezzi che hanno a disposizione.
Nel calcio avviene esattamente la stessa cosa. Sia nel calcio che nella guerra, l’arte (intesa come inventiva, istinto, talento, sprezzatura, e comprensione dell’attimo) e la scienza (tattica, strategia, conoscenza delle proprie forze, delle caratteristiche dei propri uomini, studio dell’avversario) contribuiscono assieme al caos alias fato, alias sorte, a determinare le vittorie.
Pur tuttavia, c’è un’altra peculiarità ancora più sostanziale che accomuna il tipo di leadership di un allenatore e di un generale. In entrambi i casi, che si tratti di compagini vincenti o perdenti, si può parlare di vera squadra o di vero esercito solo quando la somma delle energie bruciate, degli sforzi e dei comportamenti delle singole unità che formano l’entità collettiva da condurre in battaglia sul campo rispecchia in tutto e per tutto il carattere, la mentalità e lo spirito del condottiero.
Nell’era dei tre punti, ovvero dal 1994-95 a oggi, l’esercito Juventus ha visto alternarsi sulla panchina del comando 11 allenatori (c’è stato un Lippi bis) in 22 anni, decisamente pochi, se consideriamo che 1 uno di loro, Corradini, è subentrato nelle ultime due giornate di campionato per circostanze molto particolari, che Ciro Ferrara fu confermato sulle ali dell’entusiasmo per due vittorie d’orgoglio che garantirono il preliminare di Champions, e che anche Alberto Zaccheroni fu chiamato con il ruolo pressoché annunciato del traghettatore.
Ognuno dei magnifici 11 (sì, anche Corradini) ha pervaso di sé, nel bene e nel male, le proprie schiere. Vediamo come.
Marcello Lippi
Giunto dopo il secondo generalato Trapattoni, ben più magro del primo sia per trofei vinti (una coppa Uefa in 3 stagioni), sia per qualità del calcio espresso (il gioco del Trap era già superato agli inizi degli anni ’90 con tutti i gregari a servizio dei migliori e il libero staccato), Marcello Lippi giunse a Torino come l’uomo nuovo di una nuova dirigenza, simbolo di rottura con il passato targato Boniperti. Aveva fatto bene a Bergamo e a Napoli, ma nessuno poteva immaginare, almeno all’inizio, il suo straordinario ciclo di risultati. Eppure, del vincente aveva già le stigmate. Bello, bellissimo da calciatore, anche quando indossò i gradi in bianconero, a 46 anni, era il sosia di Paul Newman, era esperto di spogliatoio, conosceva il calcio minore, il meridione che è sempre una palestra, sapeva gestire i calciatori col carisma e col carattere esuberante. Perché? Perché di carisma ne aveva da vendere. È Antonio Conte a raccontare la svolta della stagione dello scudetto dopo 9 anni di delusioni, a Foggia, con le parole dell’allenatore: «Da oggi in avanti, se devo perdere, voglio perdere attaccando. Voglio perdere su contropiede. Non voglio più vedere partite di sofferenza, in cui aspettiamo gli altri. Andiamo a pressarli alti, prendiamo noi l’iniziativa». Nasce una delle più belle Juventus della storia, con il tridente Baggio – Vialli – Ravanelli, con il Divin Codino neo Pallone d’oro incalzato dall’arrivo di Alessandro Del Piero.
Il suo carattere, la sua capacità di creare e guidare un gruppo unito in grado di sorvolare alle altitudini delle aquile le esigenze personali, Lippi li dimostrò anche e soprattutto nella gestione dei suoi due geni da numero 10.
Lippi è sicuro di sé, spiritoso ma anche duro in conferenza stampa, da ex calciatore sa bene che esiste lo spogliatoio (dove urlare, prendere a pugni le porte, scegliere i luogotenenti, coltivare la dialettica eterna e amletica della vita dei campioni, ossia il loro essere o non essere mantrico, con il dualismo tra egoismo e dedizione alla causa comune), ed esiste la piazza pubblica, entro i cui labili confini il sacro gruppo va solo difeso e onorato come una divinità egizia. Del resto, lo diceva anche il celebre Sun Tzu nel suo L’arte della guerra: «Un tale generale ha cura dei suoi uomini come di bimbi, ed essi lo seguono anche in fondo all’abisso. Li tratta con lo stesso affetto dei propri figli, ed essi sono pronti a dare spontaneamente la vita per lui».
Da generale esperto, Lippi capì quando il gruppo era diventato troppo fragile (parole sue) e diede le dimissioni. Unico grande rimpianto di quella gestione, le due finali di Champions League perse con squadre abbondantemente più deboli, il Real Madrid di Mijatovic e il Borussia Dortmund degli ex, che proprio alla Juventus si erano consacrati come calciatori: finali preparate non troppo bene, con il piglio di chi per destino avrebbe vinto in modo quasi scontato (da generale troppo sicuro di avere la guerra in pugno), giocate entrambe molto al di sotto delle aspettative.
Carlo Ancelotti
Al generalato Lippi seguì quello di Carlo Ancelotti. Forse un cambio di filosofia troppo brusco. Ancelotti aveva allenato la Reggiana e il Parma con buoni risultati e vantava anche un’esperienza in Nazionale nel triennio 1992-1995 nel ruolo di vice Sacchi, di cui si dichiarava allievo soprattutto sul piano tattico e metodologico, pur con un carattere diametralmente opposto a quello del vate fanatico e ossessivo di Fusignano.
Ma l’Ancelotti bianconero si dimostrò chiaramente in fase di crescita professionale. All’approdo alla Juventus, non era pronto per un grande club. Proprio dagli errori di gestione del gruppo e sullo dallo spirito un po’ abulico trasmesso alla squadra nel periodo bianconero, è maturato ed è diventato uno dei top. Due campionati e mezzo (la prima metà dopo le dimissioni di Lippi in mezzo alle contestazioni della curva, «un maiale non può allenare») e una costante: perdere nell’esatto momento in cui il raggiungimento dei grandi risultati pareva a portata di mano. Così fu nella Champions 1998-1999, 1-1 nell’andata delle semifinali a Manchester, poi vantaggio per 2-0 e sconfitta in casa per 2-3; così fu per il campionato 1999-2000 con il celebre acquazzone di Perugia e un vantaggio di 9 punti scialacquato; e così nel 2000-2001, con il vantaggio per 2-0 dopo sei minuti nella sfida diretta con la Roma e il devastante 2-2 finale che annullò qualsiasi possibilità di vittoria. In mezzo, scelte incomprensibili come Henry esterno destro sulla fascia.
Nessun rimpianto, allora, fu lasciato da Carletto nella tifoseria bianconera. È un allenatore che molti dei suoi giocatori definiscono buono come un fratello maggiore, signorile e capace di parlare con i giocatori. Ottime doti, ma non per tutti gli ambienti. Un noto allenatore inglese che portò la prima e unica FA Cup nella bacheca del Southampton, Lawry McMenemy, disse una volta che la formula per una squadra perfetta è: «7 spazzini e 4 violinisti». La Juventus e i suoi allenatori vincenti hanno sempre aderito a questo credo, violinista in più o violinista in meno. Carlo Ancelotti, invece, col tempo si è rivelato il miglior generale possibile per le squadre con 7 violinisti e 4 spazzini. Quelle che nel calcio moderno finiscono per vincere la Champions League più spesso delle altre.
Marcello Lippi Bis
Ritorno all’antico spleen con il secondo generalato di Marcello. Parte un violinista classico, Zidane, arrivano tre chitarristi rock. Buffon, Nedved e Thuram. La Juventus ritrova spirito e carattere dei momenti decisivi e vince due scudetti in tre stagioni, tra cui quello magnifico del 5 maggio. Unica pecca, ancora una volta, una finale di Champions League praticamente buttata al vento contro il Milan, una delle più grandi delusioni per molti juventini delle ultime generazioni. Dopo una delle più straordinarie gare della storia della Juventus (14 maggio 2003, semifinale di ritorno contro il Real), tipica notte in cui l’armata rispecchia anima e corpo il suo comandante, ancora una gestione presuntuosa (e scandalosa) delle settimane di vigilia, complice uno scudetto vinto con 3 giornate d’anticipo. Alla semifinale, passata alla storia anche per l’ammonizione inutile di un fenomenale Pavel Nedved (poi Pallone d’oro), seguirono le gare di Reggio Calabria il 18 maggio (schierate le riserve e sconfitta per 2-1), la gara casalinga con il Chievo (ancora riserve e vittoria per 4-3), per poi arrivare alla finale del 28 maggio con i titolari che non giocavano 90 minuti da 2 settimane, praticamente una vita. In gara, tutti scarichi. Altre scelte discutibili furono la marcatura a uomo di Montero su Shevchenko e la rinuncia ad affondare quando il Milan rimase praticamente in 10 per l’infortunio del già non fenomenale Roque Junior.
Fabio Capello
Il più militaresco dei condottieri juventini, per spirito, capacità in di incutere timore e piglio da leader dominatore, Fabio Capello aveva declinato al massimo livello tali doti a Roma, sponda giallorossa, dove a Fabio il grande era riuscita l’incredibile, memorabile, epica, impresa di vincere uno scudetto nella piazza più umorale, caotica, indisciplinata, ingannatrice, triviale, del calcio mondiale. Dopo un tradimento da Idi di giugno, alla Juventus arrivò trovando una rosa incredibilmente forte, sulla carta la più forte della storia bianconera. E se in campionato gli scudetti furono sostanzialmente blindati sin dalle primissime giornate, la squadra espresse di rado un gioco degno dei suoi interpreti.
Gli anni da sergente di ferro trascorsi a Roma sembravano aver indurito il già roccioso Capello, e la squadra sembrava più temerlo che amarlo. In questi casi insegna la letteratura di guerra, nelle grandi battaglie le truppe che temono – anziché amare – il proprio generale finiscono per rifiutare di dare la vita per lui, e per soffrire le prime difficoltà. Negli scontri di Champions contro il Liverpool nel 2004-05 (2-1 per i reds ad Anfield Road, 0-0 a Torino) e contro l’Arsenal (2-0 per i gunners nello straordinario Highbury, solito 0-0 a Torino) la Juventus rispecchiò a in pieno la gestalt del suo allenatore troppo freddo e lontano, temuto ma mai troppo amato: fu rocciosa ma astenica, quadrata ma priva di slanci emotivi, impassibile ma ingessata.
Didier Deschamps
Nominato generale nel momento forse più delicato della storia juventina, Didier Deschamps sembrò guidare la squadra quasi in sordina, senza farsi notare troppo, proprio come quando in campo era il capitano. Più che un generale, Deschamps divenne esattamente il capitano più alto in grado, e fu molto bravo nel trasferire motivazioni anche sui campi meno prestigiosi, sebbene anche lui venisse da una finale di Champions persa sulla panchina del Monaco. Sciorinò equilibrio in segreto, scegliendo i suoi luogotenenti tra gli ex compagni di squadra e spiegando ai nuovi e ai giovani il significato della maglia bianconera. A tratti, sul piano del gioco, la Juventus regalò anche spettacolo e belle partite, in uno scenario francamente surreale per dei campioni del mondo. Non era scontato. Capitan Deschamps fu abile a calarsi in un campionato che non poteva conoscere. Allenatori esperti e stranieri come lui, alla guida di squadre comunque favorite, finirono per fallire, come Lazaroni al Bari nel 1992-1993 e l’incredibile giramondo Bora Milutinovic all’Udinese nella stagione 1987-1988. Una stagione, quella con Didì in panchina, piuttosto divertente anche se nata sotto il segno dell’incubo di Calciopoli. Un trauma che nel tempo il mondo Juve ha saputo trasformare nel segreto dell’attuale fame atavica di vittoria. Poi le dimissioni, a due giornate dalla fine, col primo posto assicurato. Disunità di vedute future con la folkloristica quanto inesperta dirigenza del dopo Calciopoli. Oggi guida la Nazionale di Francia.
Giancarlo Corradini
Due gare di fine stagione, due sconfitte, 1 titolo di campione in Serie B nel palmares. Fugace quanto incidentale.
Claudio Ranieri
Arrivato alla Juve già espertissimo ma scevro di qualsiasi medaglia, il generale Claudio Ranieri si confermò anche in Savoia un bravo mestierante privo di genio militare, ma capace di portare le sue truppe un po’ sgangherate ai massimi livelli possibili, compreso una doppia vittoria in Champions League sul Real Madrid. Era la Juve neopromossa, con grandi campioni già molto esperti della vecchia guardia (Buffon, Camoranesi, Nedved, Trezeguet, Del Piero) e nuovi innesti di livello non straordinario, frutto di una campagna acquisti dispendiosa ma qualitativamente discutibile. Se Ranieri ebbe qualche colpa fu proprio nell’assecondare acquisti non all’altezza (discreti e niente più Momo Sissoko e Iaquinta, mediocri Tiago, Almiron e Grygera, non pronti Criscito e Nocerino, incredibile Jorge Andrade reduce da un tornado di infortuni gravi).
Ranieri mostrò di avere calma, intelligenza, conoscenza del terreno, fermezza, capacità strategiche, tutte doti fondamentali, ma – per dirla alla Sun Tzu – fu incapace di disobbedire al sovrano (la società) nelle scelte discutibili del suo biennio, a volte mostrando la stessa mancanza di saggezza. Come fu possibile preferire Poulsen, un buon giocatore da seconda divisione tedesca, a Xavi Alonso? A riassumere il biennio di Ranieri, ancora una massima di Sun Tzu: «Con le armi spuntate, l’ardore spento, la forza esaurita, il denaro volatilizzato, i vicini potranno avvantaggiarsi delle tue difficoltà e insorgere contro di te», e costringere la Juventus a due buoni piazzamenti.
Ciro Ferrara
L’allenatore migliore del mondo da metà maggio ai primi di ottobre, direbbe qualcuno, se si pensa al filotto di risultati che garantì alla Juventus nelle ultime 2 giornate del 2008-1009 (2 vittorie) e nelle prime 6 del 2009-2010 (4 vittore due pareggi), così come alla Sampdoria nelle prime 5 giornate del 2012-2013 (3 vittore e 2 pareggi). Da ottobre in poi, il disastro. Troppo amico dei calciatori, troppo eterno calciatore. Serio, grintoso, animato dalla voglia di vincere in campo, quanto farfallone in panchina, Ferrara sembra essere perfetto per coprire la figura del secondo, il tenente colonnello che scende in trincea e registra gli umori.
Alberto Zaccheroni
Autodidatta e genialoide, fermo nella volontà di emanciparsi dall’etichetta di emulatore di Sacchi (per lui è un’eresia la ricerca ossessiva del fuorigioco che andrebbe percepito solo come una conseguenza diretta del pressing), subentrò nella Juventus farfallona di Ferrara, lasciando a Cesenatico il proverbiale cul de Zac che aveva fruttato lo scudetto milanista del 1999. Alla Juventus, il generale Zac non incise molto, riuscendo soprattutto nell’impresa di farsi rimontare un 3-1 casalingo dal Fulham. Deve la carriera, per sua stessa ammissione, alla trovata del 3-4-3 all’Udinese, con il quarto difensore che si abbassava sempre dalla parte opposta alla palla e con i tre d’attacco, Poggi, Bierhoff e Amoroso risparmiati dai compiti di marcatura. Capito il trucco, è stata parabola discendente, fino al Giappone e a mamma RAI.
Luigi Del Neri
Il generale Del Neri fu chiamato alla guida di un esercito prestigioso dopo aver condotto tanti piccoli eserciti di staterelli di periferia ed essere stato cacciato via dal Porto e dalla Roma.
La tendenza a interpretare la Juventus come se fosse la Sampdoria o il Chievo Verona, mostrò subito i suoi limiti, così come le troppe invocazioni di scuse mistiche: gli arbitri, il terreno, le condizioni atmosferiche, gli errori delle truppe, per una tendenza all’alibi tipicamente provinciale e deleteria. I soldati non lo capivano e non credevano in lui. Ma qui, per citare ancora Sun Tzu, la colpa fu della società: «Un sovrano illuminato non sceglie un generale che non conosce bene i fattori che portano alla vittoria».
Antonio Conte
Ed eccoci agli anni più recenti. Arrivato alla Juventus dopo stagioni molto buie, il generale Antonio Conte prese la squadra andando a parlare direttamente col sovrano. Da subito fu una vera macchina da guerra. Nel suo bagaglio da di allenatore riunisce il meglio di tutti i mister che ha avuto da giocatore, molti dei quali proprio alla Juventus. Il genio militare e la capacità di creare il gruppo di Lippi, la disciplina di Capello, l’ossessività di Sacchi, l’esperienza del calcio di provincia di Fascetti e perfino certi eccessi folkloristici di Mazzone.
L’arte della guerra di Sun Tzu potrebbe essere il libro che Conte tiene sul comodino. «Chi ha creato un esercito compatto, con ufficiali e soldati che combattono uniti per un unico fine, sarà vittorioso», scrive il grande stratega, ed è sembra proprio la descrizione della Juve di Conte.
Partì con un 4-2-4 che rischiava di balbettare proprio sugli esterni, e sebbene fin troppo ostinato (secondo Von Clausewitz l’ostinazione è un difetto di maturità di alcuni generali) Antonio passò al 3-5-2, trasformando il trio Barzagli – Bonucci – Chiellini (con Del Neri un battaglione di trincea da Sturmtruppen) nel muro difensivo più famoso del mondo.
Conte diventò il leader assoluto di una squadra che sembrava possedere lo spirito immanente di un secolo di storia societaria, la forza del nuovo stadio e una voglia spropositata di vincere. Imperversava in panchina e davanti alle telecamere, innescando battaglie di posizione e propaganda con i media e gli avversari. Memorabili i suoi discorsi motivazionali («Devono sputare sangue»), le sue battaglie in televisione con Boban e con i giornalisti dopo le gare contro Lazio, Genoa e molte altre. Quando esagerava e si rivoltava al contro il sovrano, lo faceva per troppo amore della vittoria («Non si va con 10 euro al ristorante da 100 euro»), o per un temperamento che si è trasformato, nel tempo, in un perfezionismo maniacale volto al risultato, che stressa i calciatori. Si dice che al tempo delle sue dimissioni tutto l’ambiente fosse logorato da questa smania, e che il generale Antonio volesse decidere ormai anche la marca delle cialde da caffè al bar di Vinovo.
Molti juventini si sentirono traditi dal suo addio, ma il generale Conte è così, prendere o lasciare. Da vero innamorato della guerra, se si accorge di non poter combattere la sua battaglia, si va a cercare altrove guerre su misura. Quando con l’età Conte capirà come gestire meglio la sua fame, e saprà accettare di lasciare qualcosa per strada allo scopo di ricaricare le energie nervose delle sue truppe, probabilmente sarà il migliore allenatore del mondo.
Massimiliano Allegri
Arrivato in una notte nel giro di un solo giorno dopo le dimissioni inattese di un eroe di guerra, Massimiliano Allegri ha saputo interpretare esattamente la situazione che aveva davanti, mostrando doti caratteriali e intellettuali, istinto e saggezza. Al Milan aveva prima brillato, sembrando Alessandro Magno (scudetto al primo anno), poi si era rilassato, mostrandosi troppo prono al sovrano Re Mida, permettendogli di imperversare con sfottò, insulti e mancanze di rispetto.
Generale tutto sommato autorevole, già vincente altrove, rispettato dai soldati e ottimo gestore del gruppo, ha capito esattamente quale massima di Sun Tzu doveva applicare al suo nuovo esercito, logorato nei nervi: «Chi è in grado di stabilire quando deve usare forze minori, e quando maggiori, riuscirà vittorioso». Questa grande abilità del generale Allegri ha prodotto finora 5 trofei e una finale di Champions. Altri ne seguiranno, sebbene a volte Max dia la sensazione di non avere rivali quando si tratta di gestire ma che il suo genio bellico non sia da fuoriclasse quando invece si tratta di creare.
In chiusura, a lui e ai generali che verranno ingiungiamo di non scordare mai la prima massima di Sun Tzu: «La guerra è di somma importanza per lo Stato: è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni, ed è lì che se ne traccia la via della sopravvivenza o della distruzione. Dunque è indispensabile studiarla a fondo».
O in altre parole, vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.
P.S. Si ringrazia la memoria storica Gianluigi Desiati per i preziosi confronti di amarcord
Giancarlo Liviano D’arcangelo