L’arte di correre: Pavel Nedved

Correre. Correre come ossessione. Correre sempre.Fare della propulsione una mistica, per mezzodelle gambe e dello spirito.

Correre per aggredire il lo spazio vuoto e inondarlo di furia. Correre come se si possedesse il segreto stesso della cibernetica.

Correre, per diventare irraggiungibili.

Nessun calciatore più di Pavel Nedved è stato in grado di trasmettermi, a me che mi vantavo di essere un ammiratore convinto dell’assioma “massimo risultato col minimo sforzo”, il dubbio che proprio nell’atto della corsa perpetua sul filo di tutte le tonalità di ritmo, d’intensità epotenza in falcata, si assiepasse una forma di felicità superiore.

Solo i ghepardi mentre schizzano e bruciano la terra sanno trasmettere quell’identica sensazione di beatitudine, quando nello scatto in surplacee nell’accelerazione repentina raggiungono il nirvana e sembrano occupare la loro perfetta e armoniosa collocazione nel mondo.

In campo, quando la gravitazione perpetua e ragionata dei ventidue subiva uno strappo o un black out,per qualche colpo di genio oun capriccio del caos,e si aprivano dinanzi a lui delle fessure spazio temporali sottili ecorridoi bradida conquistare balenandoin verticale, Nedved sembrava raggiungere il proprio stato di natura.

Impavido, volitivo, determinato. Un sistema perfetto, un’arma letale. Proprio come un ghepardo in piena caccia.

Pavel Nedved il ghepardo arrivò alla Juve per sostituire un leone. Zinedine Zidane, che come un leone era sontuoso nelle movenze, profondo nello sguardo, ruggente negli scatti d’ira, all’apparenza flemmatico eppure potente, irridente e letale, regale nell’uccidere e poi acquietarsi in oasi placidedi quiete prima di dilaniare ancora con un morso inaspettato o un colpo d’artiglio.

Non fu semplice da subito. Relegato in fascia, il ghepardo soffriva il recinto tattico. Da sinistra al centro, un movimento ricorrente, quasi su binario. Gabbie tattiche solo per limitarlo. Sui binaridel resto non corrono i ghepardi ma i treni veloci. Gioielli di aerodinamica senza dubbio, capolavori di forza motrice, però macchineprive dell’anima.

In Pavel, prima ancora delle gambe, a incendiarsi e deflagrare in corsa era proprio un fuoco interiore.

Come il 22 aprile del 2003, al Camp Nou di Barcelona.

Gara di ritorno dei quarti di finale di Coppa dei Campioni. Le corse limitate nei recinti sono solo un ricordo, la libertà tattica per Pavel è ormai un diritto acquisito per rango, è una questione di nobiltà di sangue, un fatto di coraggio dimostrato sul campo. E poi c’è la ferma volontà dei generali che godono a sfoggiarlo come arma segreta, dall’altissima potenza di fuoco.

Destro e sinistro al fulmicotone, il piede non conta, sono la stessa cosa da quando Pavel è bambino.

Eppure stavolta è proprio nella zona sinistra che si apre il corridoio giusto. Davids è per tutti il pitbull, ma a volte oltre a saper ringhiare è più rapido di un felino. Con la forza arcigna e un salto da lince fa suo un pallone destinato ad altri, poi torna molosso e avanza, tracima campo con gambe che paiono rostri, scarica e fa correre Nedved sulla fascia. È un binario morto, ma Pavel quando è un treno è un treno chederaglia e si fa inarrestabile, e vede lo spazio che non c’è.

Taglio improvviso nel buco centrale, dal vertice dell’area. Corre forte e li semina uno a uno, Motta, Reiziger e Puyol, poi quando sono tutti troppo indietro per raggiungerlo, accorcia i passi e rallenta la frequenza, per mirare il punto esatto da trafiggere. La palla, come se la balistica fosse un’estensione della sua corsa, quando è calciata da lui segue geometrie lineari, traiettorie mai barocche che fendono come lame.Parte veloce e tagliente, il tiro. Pavel correrebbe ancora dietro alla pallae prima o poi la raggiungerebbe purese servisse. Ma quella finisce all’angolino e si ferma roteando su se stessa, e allora la corsa perpetua deve cambiare direzione, perché lo spazio ancora liberoda conquistare semmai è all’indietro, verso i compagni in esultanza.

Uno a zero ma l’ordalia è lunga. Pareggerà Xavi momentaneamente.Sarà Zalayeta, una pantera un po’ sorniona e troppo addomesticata, ma d’istinto capace di qualche morso decisivo, a finire la carcassa avversaria.

È molto ma non tutto. La corsa, la costanza, quella capacità di aggredire lo sforzo, di trasformare la corsa in fondo, in maratona, in velocità pura, in affondo e in aggressione, in strumento di difesa e offesa, in prova di resistenza e di forza di volontà, ha insegnato a Nedved a controllare il suo talento che è enorme.

Il 14 maggio del 2003 Juventus – Real Madrid, il match di Nedved più indimenticabile.

Ancora Coppa dei Campioni,semifinale di ritorno.

Bisognava ribaltare una sconfitta di misura. Bisognava costringere un re ad abdicare, oppure bisognava deporlo con la forza. Intorno a lui, belve da trasformare in gazzelle. Di fronte a lui, a portata di sguardo, Zinedine Zidane. Chi è più letale, un ghepardo o un leone?Se bastasse correre, non ci sarebbe competizione, ma quandoil leone ha il pallone tra i piedi è ancora il più forte. Non al ritmo di Pavel però; al ritmo vertiginoso di Nedved è solo Nedved che comanda.

Il moto è continuo, strappi, scatti a tutto campo, curve, frenate repentine e fulminei cambi di direzione. La mente èlibera, e a sua voltalibera i muscoli.

Al dodicesimo minutoil leone dal manto bianco subisce il primo morso.

Nedvedin corsa libera raggiunge il pallone, finta un rientro e brucia Helguera a frequenze solo sue; scappa via in verticale, come sempre verso lo spazio da espugnare. Un cross perfetto, perché Nedved corre più di tutti ma tocca il pallone con maestria, ha tecnica da vendere e precisione estrema, e ha visto Del Piero sul secondo palo. Colpo di testa all’indietro che è un assist perfetto, e il cobra Trezeguet fa male, affonda i denti e inietta il suo veleno. Raddoppia Del Piero poco dopo, uno che il calcio lo strappa via alle belve affamate e lo porta in un museo, e allora l’energia che mette in campo non è più la fame ma il mistero dell’arte.

Mette giù di collo, in area, un palla che spiove da lontano, la bestia semmai è il pallone e lui il suo domatore, finta, controfinta su Hierro che scivola a terra, e destro nell’unico spazio libero tra lui e la porta. Due a zero, ma potrebbe non bastare. I leoni feriti hanno ancora più fame, caracollano ma resistono esono disposti a tutto prima di morire. Buffon para un rigore a Figo, un colpo d’artiglio fiacco che non fa tanto male. Zidane sembra non tenere quei ritmi furiosi, ma la lotta resta in bilico fino a quando Zambrotta si accorge che Pavel sta trottando al centro della metà campo avversaria. Sa che in verticale nessuno più di lui vede lo spazio anche quando non c’è, e capisce che è l’attimo perfetto, perché Pavel moltiplica i giri e scatta con veemenza a mille all’ora.

Il pallone in volo arcuato lo supera e precipita, e Nedved aumenta il ritmo ancora. Corre a modo suo, libero come la bora e costante come un aliseo, sprigiona in potenza gli arti inferiori e da spinta con le spalle, mulina le braccia e raggiunge frequenze altissime.

È atesta alta, guarda il pallone spiovente e il suo istinto vede lo spazio libero da conquistare e si avventa sul rimbalzo, tutto avviene a velocità massima, Helguera e Salgado ci provano a corrergli dietro ma è troppo tardi, passi brevi per coordinarsi e poi l’impatto, un destro di controbalzo perfetto, mentre la gamba sinistra è in piena falcata. Un gioiello di balistica in piena corsa, il massimo del repertorio.

La rete si gonfia e trema ma Pavel non si ferma, rallenta un po’ ma continua finché c’è spazio vuoto da aggredire, corre per la gioia, per l’inerzia e perché fermarsi lo fa sentire sempre un po’ in colpa. Salta i cartelloni pubblicitari e corre, vede la curva in visibilio e corre, e quando la raggiunge allora per fermarsi c’è un motivo. Pavel apre le braccia e s’inginocchia, e quel che lo investe di colpo non è più lo spostamento d’aria che consegue al moto aerobico ma è il boato di tutto lo stadio.

Non è ancora finita ma è finita.

Il leone dal manto bianco è stremato, moribondo. Emetterà qualche altro respiro, Zidane si concederà un graffio innocuo prima dell’ultimo. Ma pur nell’apoteosi, qualcosa va storto. L’arbitro Meier, da burocrate svizzero, non sa che i ghepardi quando corrono a volte non sanno fermarsi, o si fermano troppo tardi. È un fatto d’istinto e insieme di genetica. Nedved travolge McManaman, e il giallo che segue è come la fucilata a freddo di un bracconiere.

La squalifica, lo sparo, costerà a Nedved la Coppa dei Campioni, ma non il Pallone d’oro.

Non è un traguardo, nient’affatto.

Ancora tanta Juve, sei anni di corse senza fine e gioielli balistici, stagioni di fughe in verticale e gol mai banali, quasi sempre voluti, immaginati, puntati da lontano, raggiunti ad ampie falcate e catturati, per un totale di 327 partite e 65 fughe di gioia nitida. In mezzo, la serie B e il ritorno in Champions, fino al tributo finale, il giorno dell’addio. È il tempo dell’ultimo giro di campo, e per una volta, per la prima volta, Nedved non corre. Cammina. I quattrocento metri dell’ovale Pavel li brucerebbe in meno di un minuto, ma certe esperienze più sono lunghe meglio è. Ogni tanto l’istinto torna a insistere, Nedved aumenta i giri, cerca la sua andatura poi rallenta. Il ghepardo adulto è triste ma non troppo. Smetterà col pallone, non di correre.

Un grande cacciatore, Mourinho, proverà a blandirlo, a sedarlo e a portarlo con sé senza riuscirci. Perché Nedved lo sa: correre è sempre magnifico, ma con certe maglie addosso lo è di più.

di Giancarlo Liviano D’arcangelo


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