Dove eravamo? Dove siamo? Dove saremo? Il giorno dello scudetto non è mai un giorno come gli altri. Sia che non te lo aspetti (ma sei juventino, quindi sotto sotto te lo aspetti sempre, c’è sempre un appiglio, c’è sempre un ragionamento mentale che esula anche da quanto siano forti e attrezzati gli altri), sia che sia atteso (mai dovuto, mai scontato), sia che diventi una priorità (per esempio quella del riscatto tutto italiano post-Calciopoli, superato in questo senso dopo i tre anni di Conte, ma motivo recondito dell’incattivirsi per otto anni o dieci o dodici), sia che diventi una parentesi lampo tra una bruciante eliminazione in Champions League e l’incalzare del totoallenatore e del totocalciatori.
Dove sono oggi? In diretta televisiva. A viverla in presa diretta raccontando minuto per minuto la partita contro la Fiorentina. Come ho fatto per l’Ajax, con la tentazione finale di togliere la giacca e scaraventarla in mezzo allo studio. Dove ero il giorno di Trieste? In uno studio tv a Vinovo, tenendoci per mano perché l’onda sarebbe ricominciata al termine di quel Cagliari-Juventus firmato Mirko Vucinic e un’autorete che ci ha permesso di staccare gli occhi dai monitor e scaricare l’adrenalina. Vucinic che fu anche l’ultima persona che vidi prima di salire in macchina e andare a dormire ore 4.30 della mattina. La squadra era già rientrata nel frattempo, noi nel frattempo avevamo consumato sette ore di diretta ad ascoltare tutti, a utilizzare per la prima volta i social per tracciare le reazioni dei protagonisti, a capire che finalmente eravamo ripartiti.
In quel 6 maggio 2012 si è acceso un motore che non si è mai spento. E, guardando indietro, ogni spavento, ogni rumore sospetto, ogni spia che sembrava lampeggiare dentro il quadro bianconero, portava dietro strascichi e dibattiti sempre superati dalla potenza del giorno dopo, del passo avanti, del rilancio che è la parola chiave di questa seconda (o terza?) fase della gestione Andrea Agnelli.
Non è stato sempre per tutti uguale, c’è per chi hanno pesato tanto o poco, tantissimo o relativamente poco, ma in questo incredibile percorso che ormai viviamo con naturalezza ci sono state: la squalifica di Antonio Conte, la prima sconfitta interna in Champions League allo Stadium, un’eliminazione nei gironi, un’Europa League con finale a Torino tra una spagnola e una portoghese, l’addio a Matri e Giaccherini, due finali di Champions perse con almeno due gol di divario, la cessione di Paul Pogba (le altre non erano cessioni, ma in qualche modo dismissioni), tre Supercoppe Italiane perse, il saluto a un quasi eroe di Coppa che tornava al Real Madrid, un momentaneo dodicesimo posto, un’eliminazione agli ottavi di finale in vantaggio di due reti, i primi tre punti del Napoli allo Stadium, Bonucci al Milan, una rovesciata, un rigore contro al novantesimo e un quantitativo industriale di vittorie di misura in campionato.
Dove sarò il giorno del prossimo scudetto ancora non lo so, ma so dove saremo domani. Qui o in qualunque luogo a parlare di Juve. Anche con gli arrabbiati e gli inviperiti, che saranno i primi a superare centottanta minuti di una storia enormemente più grande di noi e di chi aspetta che tutto questo un giorno abbia fine. Coloro, rivali, che non riescono neppure più a essere né arrabbiati né inviperiti.
Luca Momblano
Lo scudetto di AterAlbus4 min lettura
Abbiamo chiesto ai membri della redazione di indicare un nome da associare a questo scudetto.
Lo scudetto di Andrea Agnelli
di Michele Tossani
Dell’ottavo scudetto consecutivo della Juve verrà detto e scritto di tutto. Mi permetto solo di aggiungere una cosa: non ci si deve mai stancare di vincere uno scudetto. È vero, il sogno è e deve rimanere la Champions, ma quando il tifoso va al bar e al lavoro, la mattina incontra milanisti, interisti, napoletani. Non tifosi del Real Madrid o del Barcellona. Primeggiare nel torneo nazionale non è mai banale e non deve essere considerato né superfluo né una ovvietà. Ogni anno tutte le squadre partono da zero punti; arrivare primi oggi, ieri e forse anche domani è sempre una conquista e una cosa bella che permette al tifoso bianconero di vivere gioiosamente la propria settimana. Il merito di questo titolo va suddiviso fra tutti coloro che hanno contribuito alla sua conquista, ma è innegabile che se si dovesse indicare un nome da associare al titolo, direi che questo è lo scudetto di Andrea Agnelli. Perché è impossibile non sottolinearne la visione, la gestione e le capacità di scelta degli uomini cui delegare le cariche più rappresentative. Questo è il titolo che corona un lavoro straordinario fatto nel riportare la Juve ai vertici del calcio italiano dopo le macerie della B. Ed è largamente merito di Andrea Agnelli
Lo scudetto di Wojciech Szczęsny
di Andrea Lapegna
Mi piacerebbe partire dall’inizio per narrare di questo scudetto, e quindi dal nostro numero uno. Perché se il primo anno senza Buffon è stato avvertito solo emotivamente e non sul campo, è tutto merito suo. Szczęsny ha coperto il vuoto più ingombrante della storia del ruolo con una naturalezza ed un’efficacia passate troppo spesso sotto silenzio. Ha ultimato un processo di maturazione tecnica e psicologica che era cominciato con lo sbarco in Italia, alla corte di Savorani. Oggi, questo processo può dirsi completato e ha consegnato alla Juventus uno dei migliori portieri al mondo.
Dal punto di vista tecnico ha ulteriormente affinato il proprio spettro di abilità, incluse quelle meno banali come il gioco con i piedi. Si è sempre distinto per parate tanto spettacolari quanto efficaci, con una pulizia tecnica da far invidia a portieri molto più reclamati. Si è calato alla perfezione in un ruolo che lo chiama ad essere sollecitato poco ma in maniera spesso decisiva; non si è mai tirato indietro, specialmente nei momenti più importanti, come ad esempio negli interventi decisivi contro l’Atlético o contro l’Ajax in Champions League. Parla un italiano perfetto, perché secondo lui l’elemento principale del portiere è una corretta comunicazione con i propri difensori. Chapeau, Tek, perché questo scudetto è anche e soprattutto tuo.
Lo scudetto di Moise Kean
di Elena Chiara Mitrani
Questo per me è lo scudetto di Moise Kean, perché il suo contributo è arrivato solo alla fine ma le occasioni che ha saputo cogliere durante l’ultimo mese ci hanno permesso di scoprire che la Juventus ha in casa un tesoro e deve tenerselo stretto.
Diciamo la verità: quando alla squadra più forte d’Italia aggiungi Ronaldo la competizione svanisce del tutto, e i tifosi bianconeri si aspettavano di vincere questo campionato da prima che iniziasse. Ma aver avuto la possibilità di far giocare Kean, anche grazie al fatto che la lotta scudetto fosse già chiusa, è stata un’opportunità imperdibile per il giovane attaccante e un motivo in più per i tifosi di seguire partite altrimenti povere di interesse. I gol sono arrivati e i movimenti sono quelli giusti. Mi piacerebbe che questo scudetto – che sarà poco acclamato perché ritenuto “scontato” – sia ricordato come l’anno in cui è salito alle luci della ribalta un giocatore destinato a dare tanto alla Juventus e alla nazionale.
Lo scudetto di Rodrigo Bentancur
di Luca Rossi
In un campionato che non è pressoché mai stato in discussione ho fatto fatica personalmente a trovare un uomo a cui associare l’immagine di questo ottavo scudetto consecutivo portato in bacheca. Riflettendoci più approfonditamente mi sono venute in mente le splendide partite giocate a inizio stagione da Rodrigo Bentancur. Il “Lolo”, complice gli infortuni di inizio anno di Khedira e Emre Can, è stato titolare inamovibile nella Juventus splendida e dominatrice che abbiamo visto nel primo terzo di stagione ed è esploso fornendo prestazioni di eccellente qualità sotto ogni punto di vista. La fluidità tattica, il controllo degli spazi e il possesso sapiente del pallone sono passati senza dubbio dai piedi e dalla testa di un giocatore tecnico e intelligente. Già nella stagione scorsa Bentancur aveva fatto intravedere le sue qualità che però non avevano trovato la continuità necessaria a causa di una concorrenza ancora serrata. Quest’anno, al netto di una seconda parte di stagione in diminuendo (come tutta la squadra, in verità) l’uruguaiano ha dimostrato di poter essere uno dei perni di un top team se ne vengono assecondate le qualità. Ah, è un 1997. Not bad. By Andrea Lapegna
8th Scudetto is coming
7 regni, 7 stagioni, 7 scudetti, the eighth is coming.
Per i fan di Game Of Thrones l’attesa è finalmente giunta al termine.
L’epilogo di un campionato già noto prima di cominciare sembra
legittimare lo scarso entusiasmo di tifosi troppo ben abituati a
vittorie scontate e senza battaglia.
La vera guerra è un’altra, lo sappiamo, e la Juve mai come quest’anno potrebbe schierare l’esercito più forte.
Szczesny: Verme Grigio. E’ al comando della difesa della regina; spesso privato del suo vero nome come gli immacolati.
Bonucci: Jaime Lannister. Ha ucciso alle spalle il Re Folle di cui era guardia reale. Storia simile per chi è partito alla volta di San Siro per diventare primo cavaliere. Riaccolto in patria, Leo fatica a riconquistarsi il posto nel cuore dei tifosi. Un Lannister paga sempre i propri debiti.
Chiellini: I draghi. Ci protegge come nessun altro, al suo segnale: Dracarys.
Emre Can: L’uomo dai mille volti. E’ il jolly di Allegri, vedere capolavoro contro l’Atletico. Cambia ruolo ma non la faccia (per fortuna).
Khedira: energico come Sansa Stark.
Pjanic: Tyrion Lannister. È quello che “conosce le cose”. Lui è la mente altri la spada, esemplare l’assist per Kean in Juve-Milan.
Bernardeschi: Lady Melisandre. A volte si accende come il signore della Luce.
Dybala: Jorah Mormont. Il soldato fedele di una regina innamorata di un altro. Costretto costantemente a guadagnarsi la fiducia, con l’arrivo di Cristiano si sacrifica il doppio per metà dei meriti.
Kean: Khal Drogo. E’ il suo momento…che dura da un mese. Non lo ferma nemmeno un esercito di Dothraki.
CR7: Jon Snow. E’ il re legittimo, il nostro Lord Comandante, il prescelto per l’obiettivo finale: “You know what we want, Cristiano”.
Allegri: chiunque dica “Io sono il re”, non è un vero re; “complimenti ai ragazzi” è il motto di casa Allegri. Un po’ Tywin Lannister, il più grande stratega dei sette regni, un po’ Corvo con tre occhi: colui che tutto vede e tutto sa.
Fuori lista Daenerys e Cersei; impossibile scegliere una regina di fronte alla Vecchia Signora.
Valar morghulis, Valar dohaeris, Fino alla fine.
L’ottovolante bianconero
Gli alti e i bassi, il nostro Paese e l’infuori. Non c’è scelta da parte di chi gareggia, siamo noi che possiamo scegliere se urlare e godere oppure tacere e contestare. Oppure entrambe le cose, perché il bianconero non è sempre un obbligo anche per chi tifa da una vita.
Il gioco è durato poco e, se non il
massimo del divertimento, è stato bello. Vicino casa non abbiamo
affrontato le montagne russe, non abbiamo percorso binari in salita,
abbiamo disceso coi carrelli sempre ben agganciati.
Un periodo comunque ed ovviamente impegnativo, ma con assenza dell’ansia e del timore di fallire l’obiettivo.
Un altro giro completato, il numero otto, quello che fa scrivere simboli d’infinito e fa cominciare a perdere il conto tanto è alto. A destinazione, si gode in massa; durante il cammino, però, le sensazioni sono state differenti.
Urla,
colpi, urti, mani in aria: come in un ottovolante, si arriva in alto,
in altissimo, ed in basso, il basso meno previsto e dunque la cui
esplorazione è quanto mai complicata.
Tanto tempo, tanto denaro, tanti giri. E poi la corsa termina e non pochi sono più nauseati che esaltati.
Talvolta, c’è poca logica. L’argomento non è governabile, l’ingordigia dettata dal dominio diventa un rifugio: qualcosa sta divorando qualcuno, quel che fino a poco fa esaltava viene controllato perché il sogno creduto alla portata resta tale.
Che tu stia esultando o sbattendo la
porta, è molto difficile tenere i piedi per terra. Tanto bene, tanto
affetto, tanta tenerezza, tanto amore. Cross tra i sentimenti: contenti,
ma non felici; “Mai più”, sapendo di mentire.
Vale la pena continuare a girare portando rispetto ed applaudendo chi merita tutto questo da quasi un decennio.
C’è qualche compagno in meno sulla giostra, comunque vince il divertimento sul poco voltastomaco. Inerzia, conservazione dell’energia positiva, sfuggendo alla noia ed alle ostentate rabbia e rassegnazione; andiamo a coprire il caos emotivo con la beatitudine del trionfo.
È Pasqua.
Qualcuno degli irrequieti inizia a pregare.
Ma questo non vuol dire tornare a credere.
Giacomo Scutiero
Lo scudetto del nostro scontento
Il fatto che questo pezzo origini da un diktat di Luca Momblano piuttosto che da una mia libera iniziativa, renderebbe del tutto pleonastiche le (non poche: me ne scuso) righe che seguono. Perché il sottoscritto, come molti (ma non tutti, per fortuna) di voi, è tra quelli che ha valutato (inutile dirvi come) la stagione 2018/2019 sulla base di quello che è stato martedì sera, in quella dimensione totalmente astratta dalla realtà fattuale in cui l’ingiusto certamente insito in un giudizio legato all’episodicità della competizione più episodica che c’è, si lega a doppio filo al giusto del cosa eravamo, cosa (non) siamo stati e cosa potremmo e dovremmo diventare, in ossequio ad un altro diktat (questa volta attribuibile al nonno dell’attuale presidente) per cui «una cosa fatta bene può essere certamente fatta meglio».
C’è una cosa che, allo stesso tempo (mi) ha colpito e preoccupato nell’avvicinamento alla partita contro la Fiorentina, la partita dello scudetto, la partita dell’ottavo scudetto consecutivo, nell’anno 2019. Rileggete bene: ottavo scudetto consecutivo nel 2019, nel XXI secolo. Per dire il 13 maggio 2012, mentre andavo allo Stadium per l’ultima di Del Piero e la prima di tante domeniche tricolori, mi mancava ancora un esame alla laurea ed ero ancora fidanzato con la ragazza con cui credevo che avrei diviso il resto della mia vita e che, invece, non vedo ormai da più di sei mesi.
Otto anni, anzi otto stagioni, sono un tempo che a dirlo ci sembra interminabile ma che, nei fatti, è volato via, una partita dopo l’altra, un campionato dopo l’altro: cambiavamo noi e cambiava la Juve che, intanto, ha continuato a vincere (non sempre a convincere), quasi a voler costituire quell’elemento tranquillizzante ed equilibratore che serve in ogni tipo di cambiamento, lento o repentino che sia. Basterebbe questa considerazione, banale oppure no, a farci comprendere la portata di quello cui stiamo assistendo e abbiamo assistito, senza che arrivi un pezzo di Massimo Zampini o Sandro Scarpa a ricordarcelo.
Eppure, come detto, il senso di smarrimento, al limite del disinteresse o, peggio, dell’apatia, che si respira intorno alla squadra, alla nostra squadra, mi preoccupa. Perché è una cosa che non credevo possibile. Non nell’anno di Cristiano Ronaldo, non nell’anno in cui uno dei due giocatori più forti del mondo sceglieva noi per continuare nella sua scalata a quell’Empireo che già gli appartiene e che, comunque, continua a volersi meritare con quell’etica di lavoro che appartiene ai predestinati prima ancora che ai grandissimi. Ma non posso fare a meno di ripensare all’audio di Mike Fusco fuori lo stadio prima della (im)prevedibile piallata ajacide – «ragazzi, qui ci credono molto meno che con l’Atletico» – così come non posso fare a meno di dargli ragione: perché guardare la Juve da Cardiff in poi (e, sia chiaro, non per l’1-4) è stato un autentico atto di fede in cui, molto spesso, testa, cuore e palle non sono bastati a farsi andare bene tutto e di tutto. Soprattutto per chi, identificato (e sbeffeggiato) come “nerd”, “capiscer” e tutto quello che avete letto sui vari social di contorno, sapeva perfettamente che il conto, salato, sarebbe stato prima o poi presentato ma ha comunque continuato ad essere lì dove avrebbe dovuto essere. Anche se, ormai, era solo questione di come e quando e non più di se nonostante il ritorno con l’Atletico ci avesse fatto sperare che non si trattasse più di eccezione (come poi, purtroppo, è stata) ma di regola.
Per questo le parole di Andrea Agnelli, uomo solitamente attento alle percezioni comuni di un ambiente di cui ha sempre avuto il polso, lasciano smarriti più che perplessi: come se l’apparente e serena accettazione del risultato del campo – che ha, in ogni caso, raccontato di esigenze precise e teoricamente non più rimandabili – stesse lasciando il posto a un qualcosa d’altro, a un qualcosa di diverso e, comunque, di totalmente staccato dalla realtà pur nella giusta considerazione che i cambiamenti importanti non si annunciano nelle interviste al termine di una partita andata male e finita peggio.
Solo i prossimi mesi ci diranno se quelle siano state frasi di circostanza oppure no: di certo, al netto degli ultimi focolai di resistenza e negazionismo tipicamente italiani, il vaso di Pandora è stato aperto. A mancare, ad oggi, è la rabbia che sarebbe necessaria a richiuderlo, quella rabbia che ti spinge ancora a sperare che qualcosa di diverso e migliore sia possibile e che ha, invece, lasciato il posto alla rassegnazione e all’accettazione dello status quo e del gattopardesco “tutto cambia perché niente cambi”, scudetto o non scudetto. Che è un qualcosa di addirittura peggiore e che non dipende, non può dipendere, esclusivamente dalla divisività della figura di un allenatore del quale non ho più intenzione di scrivere e parlare: perché sentire ancora di carri da riempire e svuotare, di fazioni, di Adani da blastare o esaltare, di parallelismi improbabili con Guardiola e Pochettino, di ippica e di qualsiasi altro sport che non sia calcio, mi ha francamente stancato. Anzi, svuotato. Me come tanti altri, finalmente alla stessa pagina di un libro di cui non conosciamo ancora il finale.
Claudio Pellecchia