Datemi un minuto
Qual è la differenza tra vincere e sentirsi bene, in linea con ambizioni e aspettative, e fallire e dover rincorrere in primo luogo se stessi? È questione di dettagli si dice spesso, e ricordo un film di Woody Allen che si chiama Match Point, un film normale, pieno di cliché e di errori (come si può far passare Jonathan Rhys-Meyers che non sa tenere la racchetta in mano come un ex top ten ATP?), ma con un guizzo importante: quella palla da tennis che interrompe sul nastro, rimbalza sul filo come un equilibrista ancora una volta e poi ricade, da una parte o dall’altra, con il potere di cambiare un destino e certe volte la vita. Avrò ancora il mio match point, magari a Kiev?
Ho pensato a questo ieri nello spogliatoio, quando nella mente si accumulano a intermittenza, e in apparizione disordinata, le immagini mentali della gara. La finta di Douglas Costa che prende il fondo e crossa alla cieca, e trova Mario dall’altra parte che a volo d’angelo la schiaccia dentro. Questione di millimetri, di energie in movimento che un istante prima sembrano ignorarsi o forse respingersi, e un istante dopo convogliano in un ordine che da caotico si fa all’improvviso estetico e razionale, allineato come d’incanto alle nostre speranze. E il cuore, che sembrava fermo come il respiro, ritorna a battere a ritmi normali.
Ma prima, è stata dura.
Mi sono messo le mani in faccia, erano passati dieci minuti e la sorte sembrava volersi prendere gioco di me. Un flipper, il primo rimpallo, il secondo, Alex Sandro che di solito fa sua la palla anche quando sembra tagliato fuori che va in controtempo e la liscia.
Io esco e intuisco il lato, perché ormai dopo 25 anni in porta la mia mente riconosce le posizioni del corpo che determinano la balistica come accade per i colori. La respingo e invece di schizzare via la palla dove finisce? Sullo stinco di Alex in ripiegamento e poi in porta. Destino avverso. Dopo pali, traverse e rigori sbagliati all’ultimo minuto. Che la festa sia finita? Sì, per un momento l’ho pensato. Se la palla tocca il nastro e torna sempre dalla parte sbagliata non c’è impegno in allenamento che tenga, non ci sono gli schiaffi che fanno bene quando si perde, non c’è la gestione delle partite che è migliorabile, e resta solo lo stress, un concetto che applicato al calcio dovrebbe far sorridere, ma non se giochi nella Juventus.
Sullo 0-1, ero teso come poche altre volte in questi anni. È come un richiamo dell’anima, una voce aliena che si forma dentro e s’impone in certi momenti. Una possessione demoniaca, che ti dice stavolta è finita, non potrai nemmeno rigiocartela fino in fondo.
Chiuderai senza vincerla, chiuderai senza vincere niente.
Mi stringevo la fronte pensando a cosa dire, provando a ritrovare concentrazione, testa bassa a gioco fermo e mani sui fianchi, poi testa alta se la palla è in gioco. In quelle fasi, lontano dall’azione, le provi tutte, anche gli esorcismi. Qualche battito, un guanto lava l’altro, movimenti precisi, come il riscaldamento di un pianista. Un balletto magico di dita e polsi, un rituale ancestrale, incrociare e strofinare, gesti all’apparenza frammentari che sono niente, e che a volte sembrano tutto. Giochi di bambini o incantesimi, depositari di un potere oscuro quanto immenso. Poi all’improvviso, quando pur di trovare un ordine agli eventi aggiusti una zolla di campo con lo scarpino, il vuoto da riempire si trasforma in evento, e c’è una punizione dal limite.
Uno come me lo capisce subito qual è il treno da cogliere in serate come queste, quando il tempo che scorre è una clessidra beffarda. Io so sempre qual è l’opportunità manifesta e unica. Ora, mi sono detto. Questo è il crocevia. Mire è un freddo, e da lì in allenamento me ne mette 9 su 10. Ho seguito i suoi passi all’indietro, e già sapevo che…
Ecco. L’esplosione più grande di gioia è quando si realizza qualcosa che hai già immaginato, in modo nitido e chiaro. Parabola splendida e palla in rete, senza bisogno di fortuna.
Perché la fortuna, e mi scuso per immagine poco originale, è una donna meravigliosa e volubile. Può ammiccare e girare le spalle quando vuole, ma alla fine sa di appartenere a chi la seduce con la volontà.