Il miglior primo tempo della stagione bianconera in trasferta come atteggiamento, intenzioni applicate e continuità nel voler dettare una partita da padroni del campo, corrisponde alla prima sconfitta esterna stagionale in campionato. Non sono i numeri a dirlo, e neppure i guanti di Viviano se è per questo. A dirlo è l’occhio, ciò che Allegri fatalmente predilige.
Da qui nasce l’inspiegabile, sottolineato in ogni sospiro d’intervista, che dista anni luce dall’imponderabile, ovvero una delle verità assolute del calcio: nel giornalismo popolare quest’ultimo risvolto si diceva beffa, termine oggi professionalmente abusato, che ha allargato i propri confini a qualsiasi istanza che modifichi una realtà statica (un risultato, una decisione arbitrale, un infortunio, una notizia vera o falsa o presunta che sia). Inspiegabile, invece, è un’altra cosa. Ciò che è inspiegabile conserva fattori endogeni. E allora preoccuparsi val bene uno sforzo, ciò che Chiellini giusto o sbagliato che sia fa intendere a rimorchio. I gol che piovono a grappoli, al passivo, sono quindi soltanto uno degli ingredienti della minestra.
La vera beffa, quella originale, presumeva una narrazione costruita su un susseguirsi di evidenze in divenire. E tra Sampdoria e Juventus le evidenze che restano sono le stesse del prepartita: di organico (a favore della Vecchia Signora), di tradizione (ultima sconfitta, indolore, 3-2 nel 2013) e di salute generale (con le dovute proporzioni delle aspettative estive, a favore dei blucerchiati). Il resto, appunto, era ed è occhio. Che vuole la sua parte ed è costretto a giudicare anche partite così. C’era la spasmodica ricerca di un segnale di vita superiore dopo l’autorevole ma imperfetta vittoria di San Siro e l’angosciante e più imperfetto ancora successo interno contro il Benevento. Adesso c’è l’altrettanto angosciante ricerca del colpevole (Allegri, Mandzukic e Cuadrado i più gettonati, perché ieri e domani in questo sport non vivono mai sullo stesso asse temporale). L’occhio collettivo, però, non riesce a spingersi al “potevamo anche vincere”. Le chiacchiere, le scelte tecniche, i perché e i secondi fini sono soltanto un rumoroso contorno. E le orecchie, nel football, sono fatte unicamente per produrre o ascoltare alibi, amplificare o rivendicare critiche. Khedira ne dovrebbe sapere qualcosa, dall’alto del suo status curriculare.
La si guardi dal lato di Allegri: ho giocato la partita che volevo e ho perso. Devo trovare in una sola notte le giuste spiegazioni (per quanto lui voglia spingerla lì, “quelle partite che in cui ti imbatti una volta all’anno”) anche se tradito dalla testa dei miei giocatori. E qui Allegri rischia il tilt, perché è meglio essere tradito dai centimetri, perché la psiche di squadra è più difficile da accusare e curare. Ragionerà di calcio, il mister. Per questo va apprezzato e su questo andrà (ancora una volta !?!) pesato. Un calcio di continue letture dei momenti piuttosto che dei movimenti, di pathos e non di caratteristiche, di gerarchie e retromarce, di spiegazioni talvolta poco convincenti (non che le debba, al di fuori del mondo Juve). Un calcio ohibò di cose cervellotiche, che la sua Juve, calendario alla mano, in genere si scrolla di dosso non prima degli ottavi di Champions.
Nessuno si salva da solo, scriveva la Mazzatini. E non lo farà neanche Allegri. L’amore possiede però un’alchimia diversa dal pallone. Allegri vanta un credito ancora piuttosto ampio. Lo farà valere fino all’ultimo centesimo, ma solo se ne sarà costretto. Lui è uno di quelli che elaborano in silenzio: la Juventus di Marassi ha nel sacco anche una discreta mole di errori tecnici e tattici (*) (**) (***). Sarà un continuo collaudare fino al 6 gennaio, che è soffrire, intuire, pensare, realizzare, penare. Confrontarsi. Accettarsi. Arrabbiarsi. Infine, esaltarsi. Sarà ben accetto anche un Allegri nuovo, che getti benzina sul fuoco o metta il dito nelle piaghe. Tutto secondo logica, però: non quella dei milioni, ma quella dei migliori. Che sono coloro che vanno in campo in undici e ti sembrano tredici, la vera legge (duratura) del più forte.
* 2 contro 4 in mezzo, a Genova, come intero piano partita, io non ci gioco. Neppure se dovessi andare in vantaggio.
** Battere a sinistra, almeno quanto a destra se non di più (chi non avrebbe messo Douglas Costa contro Bereszynski dall’inizio?). E, invece, solo e fortemente a destra, con sovraccarico, rincunciando e/o mai ritrovando la giocata centrale che manda Higuain al tiro preferito dopo pochi minuti. Ergo: siamo complicati davanti, né assortiti né insistenti in ciò che proponiamo.
*** Lichtsteiner-Rugani come Khedira-Pjanic: o si gioca diversamente, o le coppie sono da spaiare. I perché storici e/o tecnici sono, oggi, sotto gli occhi di tutti.
Luca Momblano
Manca “qualcosa”. Allegri come Lippi a fine ciclo?
In un clima che ha lo spettrale sapore di fine-ciclo, per una serie di prestazioni particolarmente inadeguate, le parole di Chiellini a Sky Sport suonano allusive, seppur generiche: manca “qualcosa”. Voglia, non voglia, sappia o non sappia di che si tratta, sta di fatto che questa squadra non è, sinora, ripartita dal confortante abbrivio tenuto fino a maggio scorso, ma sembra regredita, sotto molti aspetti, a quell’incomprensibile mash-up del settembre – novembre 2016.
Sì, ok: l’assenza di fame, di cazzimma, la pancia piena, persino il mercato discutibile. Ma la questione potrebbe, più che altro, essere legata a una specie di “tradimento” di cui Allegri si ritrova vittima.
Afferma Chiellini, e mi sento di condividerlo, che è un problema “collettivo”. Il collettivo fa capo al coach, che esercita sullo stesso la sua leadership: in altre parole, la teoria insegna che lui dice loro cosa fare e loro lo fanno, così come lui ha detto. Come sostiene lo stesso Allegri, il calcio è un gioco semplice. Sarà, anche se tredici formazioni diverse in tredici giornate di campionato suggerirebbero l’opposto.
Lo stesso Allegri ha definito la sconfitta di oggi contro la Samp “inspiegabile” e frutto di alcune situazioni sfortunate (chi scrive non crede alla sfortuna, sebbene la traiettoria assunta dal campanile alzato da Bernardeschi in area, nello sciagurato tentativo di spazzare il pallone, mi abbia fatto vacillare), al netto di una gara giocata discretamente per un’ora, con diverse occasioni non sfruttate.
Infatti, a dispetto dell’abbondante score offensivo, ci troviamo quest’anno nella frequente situazione di non essere efficaci sotto porta, in rapporto al volume di pericolo creato (la memoria non inganni: anche nella compianta era di Conte creavamo più occasioni che gol, per l’antica ossessione di voler entrare in porta con il pallone) e con l’aggiunta di non offrire il cosiddetto belgioco. Lasciando ad altri il compito di definire cosa ciò significhi (estetica o sostanza, raramente in perenne coesistenza tra loro, nel lungo periodo), il numero delle segnature, pur essendo straordinario, non ci concede di essere primi in classifica, a causa dei troppi gol subiti (soprattutto in trasferta).
Questa “evoluzione” (?) iperoffensiva genera più opportunità di attacco, ma meno lucidità in fase realizzativa, determinando, per di più, un costante timore delle ripartenze avversarie, di qualsiasi squadra si tratti (anche il Benevento): quando manca un interditore, il centrocampo non è mobile, né ben supportato in copertura, e risulta numericamente e qualitativamente in sofferenza. Ne consegue una difesa scoperta e, quindi, una maggiore vulnerabilità.
Trascurando, in questa sede, le disamine tecnico-tattiche (ma precisando che Pjanic in un centrocampo a due soffre e necessita, quindi, di altri due mediani ai fianchi), mi limito a constatare che, a differenza dell’anno scorso, e a parità di modulo (4-2-3-1 o, di fatto, 4-4-1-1), centrocampisti e attaccanti non stanno facendo ciò che facevano l’anno scorso.
La nostra mediana è costituita da giocatori, che hanno, di per sé, caratteristiche di attaccanti (Cuadrado e Mandzukic), di centrocampista di inserimento, e quindi, offensivo (Khedira) e di rifinitore (Pjanic). Il loro spirito di sacrificio aveva consentito la svolta del 22/01/2017 in casa contro la Lazio, in quanto si erano tutti e quattro adattati, da quel momento in poi, a giocare in ruoli non propri, richiesti dal mister, con un’intensità e una convinzione, sia in pressing sia in copertura, fino a quel momento, inedite.
Quest’anno, pur occupando le medesime posizioni, questi giocatori non sembrano rendere prestazioni di pari livello, con o senza la presenza catalizzatrice di Dybala (se in forma) da trequartista. In questi ultimi dieci mesi, si sono avvicendati molti adattamenti e molti cambi e, quindi, mi domando: la frequente mancanza di identità, fluidità, inventiva e solidità, specie nelle partite di minor pregio, ma di maggior pericolo, ne é diretta conseguenza o siamo semplicemente spettatori di un gruppo ormai appagato?
L’aver continuato con lo stesso modulo dell’anno scorso implica, come condizione necessaria, lo stesso grado di sacrificio da parte dei giocatori-chiave: c’è, quindi, qualche giocatore che sta tradendo le aspettative di Allegri o è Allegri a tradire le aspettative di quei giocatori che (a ragione o a torto) pensavano di tornare a giocare nel proprio ruolo eletto e si ritrovano, invece, a doversi nuovamente adattare, magari con minori motivazioni?
Sulla base di queste riflessioni, oggi ho avuto la sensazione, per la prima volta, che forse il ciclo di Allegri fosse finito. E ho pensato di paragonarlo alla fine di quello di Lippi, nella primavera del 2004. Mi sono reso conto (per fortuna) che non hanno nulla in comune. Mi è, a quel punto, venuto in mente il commento di Fabio Caressa, in un Juventus-Parma della stagione precedente (28/09/2002), pareggiata in rimonta allo scadere, grazie ad un lancio di Tudor, controllo (forse di mano) e gol di Del Piero, dopo aver superato Frey: “La Juve non muore mai” (ed il seguente, esilarante anatema di Sacchi). E quella era una Juventus in forma smagliante.
Ecco, cerchiamo di ricordarlo sempre: anche e soprattutto quest’anno.
di Vittorio Aversano