Neverending Buffon: i muscoli del capitano

E’ solo il destino.

Intendo quello che accompagna i grandi atleti.

Guardo i muscoli del capitano, compressi tra l’esigenza di dimostrare ogni volta tutto e l’inevitabile scorrere delle lancette della vita.

Ehi, di certo ricordi quell’infortunio con l’Under 21. Sì, quella volta in cui ti lanciasti goffamente per regalare all’irruente inglesino un pallone altrimenti destinato ai tabelloni.

Il 12 febbraio sono vent’anni e non oso nemmeno immaginare se dovessi ripetere l’errore in questi giorni.

Allora t’han detto che eri solo inesperto, dieci anni dopo avrebbero studiato la tua psiche, per poi analizzare la tua schiena. Ora, invece, taluni canterebbero il de profundis di un Superman senza più ciuffo e mantello.

Come fanno adesso, come fanno da almeno un lustro, a ogni minimo errore, foss’anche solo di posizione.

E ti tocca ogni volta ricominciare daccapo. Sempre più difficile smentirli. Mamma mia capitano, quanto sangue nelle vene.

In un ruolo che trascende dal saper solo respingere la sfera, pur restando quella la prima funzione di un guardiano.

In ogni squadra, in qualunque categoria, c’è anche dell’altro. Come il saper guidare i compagni di difesa, spronarli alle spalle come un coach di pugilato, attirarsi le responsabilità di un errore per non sfiduciarli, oppure redarguirli al momento giusto per caricarli. La tempistica la conosci alla perfezione.

E poi, dove sei, è inutile dirlo, è tutto amplificato, tanto più pensando a un passato glorioso che ti include appieno.

Quella Juve contro la quale in tanti, senza tregua, s’ingegnano per far affiorare perfidi iceberg in grado di affondarla. Ogni giorno, ogni minuto, alla minima occasione e quasi ossessivamente.

Tu non sei solo sentinella, ma anche capitano. Il capitano che non tiene mai paura, l’unico in grado di frenare un motore da un milione di cavalli e, contemporaneamente, di sterzare con quei muscoli di metano il timone della sua nave prima che la prua investa in pieno quella montagna di ghiaccio.

No, non sei più il ghepardo di un tempo, quello che si catapultava sui piedi o svettava sulle teste degli avversari come un felino e, negarlo, sarebbe mistificare la realtà.

Non mi sembra più rilevante della capacità di sfilarsi l’àncora dai pantaloni per gettarla tra le onde e, poi, delle altre mille qualità che ti restano, compresa quella di avere mani che al posto dei guantoni hanno le ali.

buffon travolgenti

E tu non sei solo capitano, ma anche sentinella. E come questa, spesso, se non sempre, scorgi per primo la donna bianca tra le onde prima ancora che ti avvisi il mozzo.

Per questo, i versi del poeta romano da un lato ti appartengono e, dall’altro, son distanti mille miglia marine dal tuo animo. Appassionato, guascone ma, soprattutto, vigile, sintesi del tuo essere bambino, adolescente ma, soprattutto, uomo.

Perché l’inestimabile valore è che tu, come Ulisse, quella dama lattea non la confonderesti mai con la foschia che annuncia una mattina soleggiata. Sempre pronto e risoluto come sei a strigliare fuori dal campo marinai spesso inebetiti e ammaliati dalle sensuali sirene dell’esistenza.

E fin quando queste virtù prevarranno sul peso delle primavere, sarà giusto insistere. Fosse un solo giorno da oggi, un anno, oppure dieci. Ecco, magari ho un tantino esagerato.

Nella certezza, il passaggio è fondamentale, che non le sacrificherai mai, solo per far numero, sull’altare di un egoismo fine a se stesso. Mai, perché ci fidiamo di te.

Sarà l’attimo in cui, smanacciandola in corner, avrai raggiunto ancora una volta una palla, stavolta di cannone accesa, nobilitando tutta la tua epoca. Fatta di voli che han sfidato le leggi della natura, ma anche di errori che ci han ricordato che lei è sempre sovrana.

E si prenderà coscienza che tutti i minuti precedenti saranno stati, uno a uno, tutti meritati, nel pieno rispetto della spietata legge dello sport. Perché, così è giusto che sia, solo allora non sarai stato numero uno a caso. Nella gioia più bella e nell’errore, così come nella vittoria e nel dispiacere di una sconfitta, la più brutta che sia.

Io, sognando Itaca, mi tapperò le orecchie e mi legherò al tuo palo fino a quell’istante. Poi, nel momento che tu avrai scelto, in un’alba che rassomiglierà un po’ alla vita, salirò dritto sul tuo cassero aiutandomi con lo sgabello e, con gli occhi lucidi, insieme a tanti altri, ti ammirerò.

Fiero del Capitano, del mio Capitano.

Molecole d’acciaio, pistone, rabbia, guerra lampo e poesia.

Foto: Francesco Dileonforte

a mio fratello,

Roberto Savino



Are U ready for the revolution?

Are U ready for the revolution?

Che sia provocazione, rischio calcolato, azzardo che ha pagato al netto dell’insipienza biancoceleste allo Stadium, Massimiliano Allegri sembra (condizionale d’obbligo) aver dato un’improvvisa accelerata a un progetto tecnico, tattico (ma anche umano) che gli girava in testa da un pò. Non credetegli quando dice che il 4-2-3-1 iperoffensivo del lunch match domenicale sia arrivato come una folgorazione di un mercoledì mattina qualsiasi; perché, checché ne dicano detrattori e critici di professione, la tendenza ad essere “un pochino più spregiudicati” (cit.) era stata già da tempo individuata come conditio sine qua non per provare ad esprimere compiutamente le grandi potenzialità di questa squadra.

Fino ad oggi il tentativo è stato fatto attraverso la ricerca di una mediazione tra le convinzioni proprie e quelle del gruppo storico. Mediazione che si è fatta sempre più difficile con il passare del tempo e che non ha favorito lo sviluppo di una precisa identità di gioco: siamo alle porte di febbraio a commentare una squadra che deve ancora capire cosa vuole diventare e come fare per diventarlo,  tra momenti di insindacabile superiorità ed altri di inspiegabile vuoto contenutistico. Passare, quindi, dalla politica dei piccoli passi a quella dello shock improvviso è stato quasi obbligato: è probabile che questo cambiamento radicale sarebbe dovuto avvenire per gradi, in previsione di quel marzo che dovrebbe dire tutto su quel che sarà la Juventus 2016/2017, ma contingenze interne ed esterne hanno finito con l’accelerare i tempi. Di quanto lo scopriremo solo nei prossimi giorni

Adesso, infatti, viene il difficile. Ovvero proseguire su una strada che si è appena iniziato a percorrere. Il che non vuol dire, attenzione, persistere nello schierare tutti i giocatori a disposizione o credere che il doble pivote Pjanic-Khedira sia la soluzione definitiva ai mali del centrocampo ancora riconosciuti e riconoscibili, ma, semplicemente, credere in un cambiamento filosofico prima ancora che tattico o di moduli. Il momento è propizio per scrollarci di dosso quell’etichetta di squadra operaia che è stata la nostra forza per anni ma che, ultimamente, ha costituito anche un nostro limite, come se il dover rispondere per forza a certi canoni (la grinta, la fame, le palle e via così) fosse il fine da raggiungere ad ogni costo e non uno dei mezzi per arrivare alla vittoria. Che può essere raggiunta anche attraverso il dominio tecnico (e non solo fisico) della partita, con il palleggio e non la corsa ossessiva, con la pazienza e non per forza la furia agonistica.

Certo conteranno sempre l’approccio alla singola gara (Genoa e Firenze insegnano) e la disponibilità dei giocatori (i vecchi più dei nuovi) a seguire le idee del proprio allenatore, supportandolo e sopportandolo anche negli inevitabili e fisiologici passaggi a vuoto e negli altrettanto inevitabili e fisiologici sacrifici di qualche grande nome (soprattutto davanti). Il resto verrà naturale. Nel caso di specie è lecito aspettarsi, nel futuro a medio-lungo termine, un ritorno al rombo, una versione “light” del 4-2-3-1 (con Marchisio nei due di centrocampo, Pjanic alzato sulla linea dei trequartisti e magari Alex Sandro alto a sinistra con Pjaca pronto a subentrare per spaccare partita e avversari) e la riproposizione del tridente puro: questo, poi, dipenderà dalla capacità di Allegri di leggere la partita e dall’avversario che ci si troverà di fronte di volta in volta. Così come saranno indispensabili altri e più probanti test per saggiare la reale consistenza del nuovo sistema di gioco.

L’importante, però, è accettare il cambiamento, viverlo per quello che è, cioè come un passaggio necessario (e non per forza doloroso) per provare a soddisfare le grandi aspettative che gravitano intorno a questa squadra. E’ un rischio anche questo, allo stesso modo del 4-2-3-1 con cui abbiamo regolato la Lazio in mezz’ora. Lì ha funzionato. E non ci sono motivi per credere che non funzionerà anche in futuro.