Non ricordo tifoso juventino tranquillo a settembre, a memoria d’uomo. Lo ricordo soltanto, forse, speranzoso ed entusiasta senza controprove né storiche né di medio periodo (diciamo due mesi, che è sempre un termine minimo sul quale giudicare) dopo il mercato che avrebbe dovuto invertire il mondo. Era l’unica estate targata Ciro Ferrara. E attenzione: a meno di 24 ore dalla batosta patita al CampNou contro Leo Messi, che ha semplicemente fatto il Leo Messi che si vede e rivede nelle clip di tutti i social network un paio di volte alla settimana, non è questione di maniavantismo. Va specificato: ogni anno i motivi per preoccuparsi sono diversi, a volte artificiosi (domande filosofiche: torneremo mai quelli di una volta in Italia (2011)? torneremo mai quelli di una volta in Europa (2017)?) come la Juventus esistesse in quanto tale e senza un mondo che si muove tutt’intorno; a volte nostalgici (se n’è andato lui, abbiamo perso quello e/o quell’altro); a volte, e qui siamo più sul pezzo, la preoccupazione è legata ai risultati.
Su quest’ultimo punto, e solo questo, bisogna fermarsi. Il peggiore sotto un certo punto di vista, perché la Juve la si segue e la si metabolizza nelle emozioni delle partite. La di giudica su questo. E fin qui nelle sue uniche uscite probanti (Olimpico e Camp Nou) si è perso, corroborando la psicosi delle trasferte già patita senza strascichi nella passata stagione. Lo stretto risultato che preoccupa è anche il migliore dei punti di osservazione, almeno per la Juve che ha abituato a repentine metarmofosi cammin facendo. L’autunno non fa primavera con un Allegri capace di plurime sterzate, pilota che è forse più un fine collaudatore che un memorabile uomo da pedale (dalla storia della Formula Uno, più Rosberg senior che Nigel Mansell).
Il bello è che quel che sarà strutturalmente di questa Juventus 7.0, perché il ciclo è qui e adesso più che mai, lo stesso incredibile ciclo, non lo sa nessuno. Non sappiamo che ne sarà di Douglas Costa, oggetto alieno ritenuto esattamente ciò che mancava, o di Bernardeschi che a Barcellona è sceso in campo con tutti i brividi del momento. Non sappiamo se Benatia o Rugani (o Howedes, volendo), se del primo si ricorderanno i nei o non un enorme primo tempo continuamente sollecitato e aggressivo e del secondo le reiterate bocciature anche quando non gioca. Non sappiamo di Higuain alle prossime prove del nove (inciso: al sessantesimo era ancora il migliore in campo della Juventus tallonato da Pjanic, ma nessuno dei due è il trascinatore che gli juventini cercano, da qui le conseguenze). Non sappiamo neppure di De Sciglio, che comunque non pareva vero né da titolare prima né dall’impatto dopo. Sappiamo invece di Dybala, sappiamo che riscuoterà i crediti.
Oggi la Juventus è un giubbotto firmato appena comprato, perché è comunque una squadra nuova più di ogni altro anno precedente (ritocchi traversali in tutti i reparti), ma non sappiamo insomma se riparerà dal freddo che incombe. E quindi ci si preoccupa. Normale. È in inverno che si traccia la rotta di una stagione. Allegri lo sa e sposta sempre l’asticella più avanti. Prende tempo. I giri sono tanti. E il girone Champions, inclusa la prima partita fuori casa contro la favorita, è disegnato per non vivere patemi. Ma noi… noi… siamo la Juventus. E, in fondo, ci piace dannatamente non vivacchiare mai troppo sereni.
Luca Monblano