Anche se secondo il cronometro non è stata la scena finale, il secondo gol è il triplice fischio dell’incontro e del campionato.
Non c’è alcuna novità in cifre: la Juventus ha vinto la partita come al
solito, Moise Kean ha realizzato di nuovo ed ha già assuefatto noi
osservatori normalizzando lo straordinario.
Il ragazzo di diciannove anni, che fa gol ogni tempo scarso di gioco, ha perduto il primo piano dell’inquadratura: le mani parlanti di Miralem Pjanic hanno ufficializzato ciò che soltanto per la matematica ufficiale non è.
Il
terzo scudetto consecutivo del bosniaco, l’ottavo consecutivo del club;
c’è tutta la Juventus in questo conteggio del Noi a prescindere dalla
più o meno longeva permanenza in batteria. Perché Pjanic passa mentre la
Juve resta.
Ai tifosi interessa il totale piuttosto che la somma ed
il numero 5 li accontenta perché quello pensa e quello fa. Le otto dita
tese sono il cartellone alzato sul ring, il gong che chiude la
competizione per k.o. multipli ed apodittica superiorità.
Questa arte dei gesti ricorda al Nord dello stadio che annoiarsi e fischiare sia lecito, ma che non capacitarsi sia diabolico. Miralem mette la medaglia al collo di tutti, in primis a quelli che colmano ogni settimana gli spalti dell’Allianz; estrae dal cassetto il certificato di impero e lo rimette sùbito a posto per non rischiare di prendere polvere e svago eccessivi.
Il campionato è una ex preoccupazione, semmai lo fosse stata. Pjanic, per inciso il migliore bianconero contro uno dei migliori Milan, mette la parola fine prima che l’algebra svolga il suo mestiere.
Cinque più tre uguale otto. La forma della clessidra, che tra qualche giorno sarà colorata d’orange e poi…Chissà. Sarà quel che sarà, procedendo leggeri come dice e vuole la guida. Come la sabbia, è tutto molto semplice.
Ci sarà bisogno di mani a posto e di piedi molto ordinati e parecchio svelti. Non ci sarà bisogno di calcoli e gesti, ma di gioco e Cristiano Ronaldo.
Appuntamento al prossimo anno. A tra poco.
Giacomo Scutiero.
Juve-Milan l’ha vinta Pjanic
Una delle sensazioni più belle per un appassionato di calcio è quando i nomi che ritrovi sul tabellino, quindi quei nomi che passeranno alla storia per aver risolto la partita, sono gli stessi che hai in testa quando pensi agli uomini-chiave che hanno determinato l’andamento della gara. Questo allineamento, per la sua rarità (pensate, ad esempio, a quante volte Chiellini non è finito sul tabellino pur essendo di gran lunga il più determinante), ci restituisce un illusorio senso di giustizia, che poi risiede molto più nella nostra testa che sul campo di calcio.
In questo Juve-Milan si è verificato in modo clamoroso uno di quegli allineamenti: partita decisa da un gol di Kean, su assist di Pjanic. Due subentranti a firmare l’ennesima rimonta stagionale di una Juve che spesso viene premiata quando decide di trasformarsi – a tal proposito si veda e riveda Juve-Atletico.
In particolare è stato l’ingresso del nostro cervello bosniaco a cambiare l’inerzia della contesa. Pjanic è entrato quando la Juve aveva appena segnato, nell’unico modo in cui poteva segnare con quella formazione, cioè saltando il centrocampo e trovando il movimento verticale (bravo Dybala nell’occasione) di una punta.
La nostra mediana, infatti, dopo l’uscita del guerrigliero Can, era stata terra di facile conquista per Kessié e soprattutto Bakayoko. Khedira ha abbandonato completamente il povero Bentancur, falloso per scarso tempismo e per necessità, ma almeno sempre presente nella partita, nonostante le difficoltà. Questo dominio fisico e tattico del centrocampo rossonero è stato interrotto dall’ingresso regale di Pjanic, che ha dato spaziature più intelligenti, maggior dominio del pallone e anche più ordine in fase di non possesso.
Pochi minuti dopo, il cambio Kean-Dybala ha completato l’opera, un po’ perché il nostro talentino è davvero in un momento d’oro, è estenuante da marcare perché sembra seguire tutte le azioni nel posto giusto, un po’ perché l’uscita di Dybala ha risvegliato finalmente un Bernardeschi fin lì avulso dal gioco.
La convivenza fra Paulo e Bernardeschi è un rebus di difficile risoluzione per Allegri: le partite in cui i due hanno giocato bene in coabitazione si contano sulle dita di una sola mano e sono state contro avversari modesti (mi viene in mente lo Young Boys). La mia sensazione è che tutti e due fatichino a trovare la posizione e a muoversi fra le linee, uno in funzione degli spazi lasciati liberi dall’altro. Con una punta di movimento come Kean, che ha impegnato la retroguardia milanista, Bernardeschi ha trovato molte più ricezioni e ha cominciato a puntare l’uomo, creando situazioni sempre interessanti.
Ci rimane dunque negli occhi la Juve dell’ultima mezz’ora, una Juve forte, convincente e soprattutto convinta, che ha corso in avanti e alzato il ritmo fino a forzare l’errore decisivo grazie a una lettura da fuoriclasse di Pjanic, uno che capisce il gioco un quarto d’ora prima. E possiamo serenamente dimenticarci dell’ennesimo brutto primo tempo della squadra, ma anche della scarsa verve di chi si giocava una chance importante, come lo stesso Dybala, il deludente Spinazzola o un Rugani fresco di rinnovo che non ha mai visto Piątek.
A proposito di Piątek, due parole sulla sua partita pazzesca: un gigante vero in mezzo a due spilungoni impacciati, un centravanti elettrico in grado di calamitare tutti i palloni, vincere i corpo a corpo, sparare in zero secondi verso la porta, prendere falli anche buttandosi per terra – saper simulare è pur sempre una dote importante. Un giocatore di sicuro spessore, che poteva essere l’uomo-copertina di questo Juve-Milan, prima che Pjanic e Kean decidessero di vestire i panni dei killer spietati.
Davide Rovati.