Pregi e difetti del resultadismo

Ora che il Napoli ha, credo meritatamente, accorciato le distanze in classifica urge fare una riflessione sul concetto di resultadismo (comunque aleatorio di natura, come si può evincere da questo articolo di El País) che NON riguarda Allegri, il suo modo di essere o il suo modo di allenare. Non in senso stretto, almeno, visto che, mi insegnate, di prestazioni ed estetica del gioco dalle parti di corso Galfer e di Vinovo se ne fregano in nome del risultato finale da raggiungere, chiunque sieda su quella panchina. Per noi essere resultadisti, quindi, non solo è normale ma addirittura inevitabile e non c’è assolutamente nulla di male in questo. Il problema o, meglio, la non concordanza tra i valori espressi e quelli dichiarati, nasce nel momento in cui non si accettano i due corollari indefettibili del resultadismo.

Roberto Beccantini, in questo post su Facebook, ha fornito un assist formidabile in tal senso, soprattutto nel passaggio in cui rileva come “non è che la Juventus abbia giocato peggio di altre volte. Hanno giocato peggio Higuain e Dybala, i campioni che di solito uccidono il risultato e cancellano le impronte”. Ovvero qualcosa che credevo fosse scontato alla luce di ciò che si è visto all’interno di questo ciclo massacrante di 13 partite in 40 giorni: come Beck, anche io non ho visto grosse differenze tra la Juve di Ferrara, quella di Roma sponda biancoceleste, quella di Verona con il Chievo o quella di Firenze, se non nell’assenza del salvifico colpo del singolo, da qualche parte nei 90′, che sbrogliasse la matassa e tacitasse nuovamente le lamentele (imho legittime, ma è altra materia da romanzo) di chi vorrebbe una squadra meno legata all’improvvisazione e più tesa a sviluppare in maniera organica le proprie trame di gioco. Ma questo è il primo corollario, quello dell’ “Allegri (e la Juventus) ha vinto, quindi ha ragione lui perché questo deve fare“: inattaccabile, indubbiamente, proprio perché è il fine che deve giustificare i mezzi e non il contrario, almeno nella nostra visione delle cose.

Poi, però, c’è il rovescio della medaglia, rappresentato dal secondo corollario, che si manifesta le (rare, per fortuna) volte in cui non c’è il risultato a giustificare e confortare un’aridità prestazionale che avrà pure mille cause e giustificazioni (e ce l’ha) ma, come detto, non è del tutto nuova e che pare connaturata nella versione 2017/2018 di questa squadra (Dario Pergolizzi ha twittato su questo concetto molto meglio di quanto avrei potuto fare io). Non mi sembra perciò anormale che all’ “Allegri (e la Juventus) ha vinto, quindi ha ragione lui perché questo deve fare” tipico di quando si vince, faccia da contraltare una critica che riguardi non solo la singola partita non vinta ma anche quelle in cui si è vinto, magari faticando più del dovuto, a causa di quei difetti endemici che Higuain, Dybala o Douglas Costa contribuiscono parzialmente a celare e che pochi impavidi eroi (noncuranti del disprezzo di chi continua a insultarli a colpi di “nerd” o “capiscer”) non hanno mai mancato di sottolineare anche dopo 12 vittorie di fila, sulla scorta di uno dei rari lampi di lucidità bielsana al grido di “c’è la sconfitta che serve e la vittoria che non serve”.

Le ultime ore hanno chiaramente manifestato l’insofferenza all’accettazione di questo secondo corollario che, però, è inscindibile da quella natura resultadista di cui spesso ci vantiamo e in nome della quale tanto (e tanti, nel senso di giocatori) abbiamo sacrificato. Vorremmo prendere solo il buono che deriva da questo nostro particolare modo di essere, spesso sbattuto in faccia ad altri come prova di una superiorità tangibile, ma dovremmo iniziare a renderci conto che non è possibile e che le critiche, pur in una sostanziale ingiustizia di fondo in considerazione di ciò che si è fatto e si sta facendo, sono solo la naturale conseguenza di questo nostro modo di vedere il calcio e, perché no, la vita. Non si può essere resultadisti senza essere i primi feroci censori di se stessi anche al minimo passo falso, perché tanto varrebbe, allora, abbracciare una nuova filosofia e non solo nel gioco; in alternativa, bisogna cominciare ad accettarsi per quel che si è. Nel bene e nel male. E’ resultadismo anche questo. Anzi, soprattutto questo.

Claudio Pellecchia