Oggi è un bellissimo giorno. Anche se piove e l’andatura è quella del reduce, del convalescente. La Juventus ha vinto il suo quinto scudetto consecutivo, disegnando un pezzo di storia che forse le mancava e che certamente impreziosisce la bacheca. Alcuni amici pensano ancora a qualche settimana fa, alle partite con il Bayern, alle cose che potevano essere e non sono state. Sono gli insoddisfatti romantici di un calcio che cerca conferme all’estero non riesce a gioire appieno dei traguardi raggiunti. Vittime inconsapevoli, offriamo una attenuante, del tam tam mediatico degli ‘anti’ che contraddistingue il modo di raccontare lo sport in questo paese. Vincere è importante, anzi è l’unica cosa che conta. Lo ha spiegato il filosofo-calciatore sul quale è stato ricostruito tutto, che ha inaugurato lo stadio si è tenuto la presidenza onoraria e aspetta l’intervista giusta per dire la sua e spiegare che Maradona non era da Juve.
Il tempo da torto e da ragione. La squadra di mister Allegri ha sovvertito i pronostici e capito cosa poteva fare, ha provato a rompere la catena del destino, ma tutto non si può governare e comandare. Ci sono eventi naturali, sfighe, arbitri e cambi al vertice, che la Juventus può solo osservare e subire come tutti. Bello, poi, che le compagini più convincenti in questo scorcio di campionato siano i due club che più hanno avversato l’odierno assetto di federazione e lega. E questo conferma da una parte che Maradona è disinformato e dall’altra che 10 anni forse non sono passati invano. La presenza di Andrea Agnelli, il suo stare dentro le cose e sopra a polemiche e chiacchiere di palazzo, è un successo che dovrebbe rendere orgogliosi. Altro che l’affermazione internazionale, il riconoscimento di un Guardiola qualunque.
Il rischio è quello del Lione, delle vittorie a ripetizione tra le mura amiche e delle figure barbine appena fuori i confini? Non si conosce la storia, se si abbassa la testa. Sin dalla finale con l’Ajax, anno 1973, la Juventus ha dimostrato sul campo di poterci stare a certi livelli. Le sconfitte a ripetizione in finale cosa sono, rappresentano, se non spauracchi, fantasmi, utili per gli almanacchi? E’ quella la storia della Juventus. Quei gradini scalati e raggiunti. Quegli stadi amici e nemici. Quel pallone che poteva andare e non è andato. Ed è bellissimo accarezzare certi ricordi e ferite quando sono guarite, amate, coccolate da maglie cariche di scudetti e coppe Italia. Il gioco odierno sarà anzi proprio quello di far dimenticare la vittoria del campionato 2015-2016 per agitare lo spettro di questo o quel traguardo. Non bisogna cadere nel tranello. Non bisogna.
Spero che qualcuno a Torino ricordi adesso le parole di quel giocatore tedesco che perse la finale con il Manchester United. Per settimane non dormì e quasi stava lasciando la professione. Poi disse di aver scoperto che c’è dell’altro, l’amore per le donne, il buon cibo, gli amici. L’anno successivo, per questo – ha scritto – riuscì a dire le parole giuste ai compagni che dovevano disputare la finale. Il pallone è un giocattolo che rotola. Qualche campione come Pogba gli impone la sua legge. Altri come Dybala e Zaza lo fanno contento scagliandolo in porta. Sarebbe meraviglioso che si avesse il coraggio e la follia economica di tenere tutti e provare a vincere a ripetizione. Perché questo bisogna fare. Non ne vogliamo vincere una sola di coppa, ma almeno due, per quanto amiamo questa squadra.
Simone Navarra