“Signori e signori la Juventus ha vinto lo scudetto e la coppa Italia, siccome poi è anche in finale di Championsleague o come dir si voglia bisogna essere tutti uniti per una sera”. Sarebbe bello se alla televisione dicessero una cosa del genere oppure anche in uno di quei palazzi romani dove si augurano sempre e comunque il peggio per la Vecchia Signora. Lo Stivale è il paese dei campanili, dei contrapposti interessi, del resto che ti aspetti? Eppure bisognerebbe puntare a questo paradiso, con avversari che si rispettano e alla fine applausi comunque. Perché la competizione è stata bella e fra persone che si rispettano si può pure perdere alla corsa dei sacchi od al torneo di briscola. In una finale di coppa, del tipo di cui parliamo, solo una volta è stata una tragedia, un crimine senza eguali. Conosciamo da juventini quel giorno e come scrive Emilio Targia facendo esercizio di memoria continuiamo a tenerlo davanti a noi. Bella allora è stata l’iniziativa del comune di Torino di intitolare una piccola piazza a quei caduti in una guerra mai dichiarata, tifosi diventati loro malgrado vittime. Chi vuol bene ai colori bianconeri rivolgerà uno sguardo ed una preghiera anche a loro ogni volta che festeggia, come si fece in occasione della inaugurazione dello stadium, in cui nulla fu dimenticato o messo sotto il tappeto.
In questo flusso ininterrotto e insonne di ricordi che non passano c’è l’abbraccio tra Vieri, Zidane e Deschamps in un tunnel dello stadio Saint Denis di Parigi. La partita è finita, i rigori hanno fatto passare la Francia e ‘Bobo’ piange disperato. Lo spaccone un po’ toscano e australiano che balla in giro per le tv adesso quella immagine forse non la ricorda. Nel libro di memorie non è messa in risalto. Eppure in quei giorni si spiegò tutto con una alzata di spalle. Roba di juventini, si disse. Eppure dentro quelle teste piegate dallo sport c’era tutto il senso profondo di quello proviamo a spiegare adesso. Perché si può essere distanti, ma non si deve mai esser nemici in un campo di calcio. Qui no. Almeno qui no, direbbe qualcuno. Le sconfitte, tutte le sconfitte di questo mondo, non riporteranno indietro. Nelle tre dimensioni che conosciamo c’è solo una direzione, quella di andare avanti. Quando Paulo Sousa fu accompagnato all’uscita, per una pubalgia che non passava e un rapporto un po’ liso con dirigenza e allenatore, venne scelto Zinedine ‘Zizou’ Zidane, transalpino per modo di dire, molto più nord africano che europeo, splendidamente campione in quasi tutto quel che faceva con un pallone.
Perdemmo due finali con lui. Anche con lui. Insieme con i risultati del Bordeaux perdente in Uefa si parlò sui media di maledizione, di sfortuna che non passa. Quando all’orizzonte, dopo una altra manciata di annate balorde e finali di campionato troppo bagnati di pioggia, apparve la possibilità di vendere ‘Zizou’ il direttore Moggi Luciano tornò a vestire i panni del ‘re del mercato’ e ricavò più di tutti nella storia delle cessioni, mettendo di buon umore pure quelli che storcevano il naso poi con tutti gli acquisti successivi. Senza risparmiare e risparmiarsi. Al modo piemontese di intendere le cose? Quasi, perché ogni volta che abbiamo incontrato Zidane si è tornati in quel corridoio di Francia, dentro quella sofferenza che non passa dopo aver perso una partita ai rigori. E’ successo così anche quando questo meraviglioso numero 21 ha giocato di nuovo all’ombra della Mole per una partita di vecchie glorie, abbracciando Alessandro ‘Alex’ Del Piero e prendendosi in giro con Edgar ‘Pitbull’ Davids e Angelo ‘Soldatino’ Di Livio.
Per questo va detto e scritto che quando Zidane andò al Real e segnò in finale contro i tedeschi del Bayer Leverkusen da questa parte si brindò come quando un amico prende la maturità. La testata a Marco Materazzi, della finale di Berlino 2006, è la conclusione con le tinte forti di questa storia. Quella ‘capocciata’ con tutti i suoi forse sul perché assorbe l’immagine di ‘Zizou’ nella sua interezza? Un bel film-reportage francese illustra quel che è stato e bisogna tornare su YouTube per vederlo, perché rimuovere certe cose non ha senso. In un giorno dei prossimi la Juventus incrocerà il cammino di Zidane ancora una volta. Meglio di quando tra gli undici, anno 2003, potevi contare su Pavel Nedved e David Trezeguet. Zidane starà in panchina a dirigere, controllare, motivare una formazione di assi capaci ognuno di far saltare il tavolo. I confronti da bar mettono sulla bilancia (ma non troppo) Gonzalo Higuain e Cristiano Ronaldo, Kroos e Pjanic, Alex Sandro e Marcelo. Non ha senso. Come chiedere chi si ama di più, il papà o la mamma. Come mettere in gara il sole e la luna. La sensazione è che possa esser diversa la vicenda umana rispetto allo spettacolo indigesto di Berlino 2015, anche se ci sono sempre gli spagnoli come commensali.
Sarà perché la Juve ha fatto pace con il Bayern Monaco? Per aver allevato e ceduto ai tedeschi Vidal? Per aver scoperto e poi fatto ben pagare Coman? Andrea Agnelli è un presidente che la storia del calcio saprà omaggiare comunque le cose vadano nel prossimo primo week-end di giugno. Andrebbe spiegato meglio in questi giorni in discesa verso un destino ricolmo di gufi e tranelli. In tre anni sono due finali. Con decine di giocatori comprati e venduti. Con un progetto di squadra e società che fa invidia al globo. E con un futuro che impone di uccidere un fratello per salire sul tetto. E’ un dato certo. Serve un killer quella sera, uno di quelli che dopo 18 anni ancora non ammette di essere stato in fuorigioco. Può capitare anche alla Juve? Oppure il destino è quello del Manchester United che vince due coppe come sappiamo e poi si fa massacrare dal Barcellona? Giulio Cesare, che di guerre se ne intendeva, scrisse che bisogna attendere la fine del giorno per capire come si conclude. E’ il senso profondo del soldato che deve lottare anche quando è solo nella trincea. Perché potrebbe vincere. Già, si potrebbe vincere.