Cari amici della redazione, mettetevi comodi perché stasera voglio raccontarvi una storia.
Bella, brutta, decidete voi. E decidete voi se tenertela per voi o raccontarla ad altri, pubblicarla. Una storia, quando la si racconta, non è più tua, diventa di chi la ascolta.
È una storia ambientata quasi 40 anni fa, 37, per l’esattezza. Meno qualche mese.
E parla di un bambino di 9 anni. E allora:
il bambino è ancora nella sua cameretta ma la 127 rossa del papà è già davanti al palazzo che aspetta. Sua madre, preoccupata, gli sta dando le ultime raccomandazioni… “Non allontanarti da tuo padre e dallo zio”, è quella più ripetuta. E, poi, un bigliettino in tasca con il numero di telefono di casa, “dallo a qualcuno se dovessi perderti”.
Le ultime parole il bambino quasi non le ascolta, tanta è la sua emozione. È la prima volta allo stadio. Non ha ancora una vera squadra del cuore, ma, quella sera, c’è la finale di Coppa Italia e lo zio è tifoso di una delle due squadre in campo. Juventus – Palermo, e si gioca a Napoli.
Ha sentito parlare tante volte dallo zio di quella squadra, di una città lontana. Lo zio ci va spesso, lavora in una fabbrica che costruisce automobili, come quella del suo papà, e di tanto in tanto, quando il lavoro nella fabbrica vicino casa è poco, si trasferisce proprio in quella città. E ogni tanto, quando torna, gli porta dei regali. Una foto di Bettega, un portachiavi con il gagliardetto della Juve, l’ultima volta addirittura un pallone.
Ma, stasera, si gioca a Napoli e lo ha invitato a vedere la partita.
Non sa ancora, quel bambino, che quella notte sarebbe nato un amore.
120 minuti, una vittoria a tre minuti dalla fine, in 10 contro 11 dalla fine del secondo tempo per un infortunio dopo le sostituzioni. Lui guardava lo zio che fremeva e non parlava per la tensione. E, al gol del 2-1, lo prese in braccio e lo fece saltare in aria per la gioia.
Capì, il bambino, che quello era bello. Che gli piaceva quello che aveva vissuto. L’attesa, il viaggio in auto, il panino col prosciutto mangiato in fretta, l’aria calda di una serata di fine giugno, la tensione, la rabbia per il gol subito, la preoccupazione di non riuscire a recuperarlo, la gioia finale.
E si innamorò di quella squadra con la maglietta a strisce.
Un amore consolidato, negli anni successivi. Nelle prime emozioni, uno scudetto all’ultima giornata, all’ultimo rigore col Catanzaro, grazie ad un irlandese che qualche anno prima, sempre all’ultimo minuto, aveva contribuito ad eliminare la Juve dalla semifinale di Coppa delle Coppe (serata di televisore giallo piccolo in bianco e nero in cucina, quella. E di una notte insonne); un francese gentile con il sorriso beffardo; Paolorossi e Zoffgentilecabrini. Ma, anche, Atene.
Ritagli di giornale nei quaderni e, ogni tanto, il papà gli comprava il Guerin Sportivo in cui c’erano dei poster da attaccare sul letto.
E, nel tempo, trionfi vari e sciagure sportive come Calciopoli e Maifredi. E quelle vere come l’Heysel.
Ma sempre a testa alta, fiero di quella maglia, di quei colori.
A guardalo da qui, a quasi 40 anni di distanza, quel bambino fa tanta tenerezza.
Cari amici, io, oggi, non mi diverto più. Quanto mi piacerebbe ritrovare, magari in qualche tasca di vecchi cappotti o in qualche scatolina con vecchie lettere, quella semplicità e quella gioia di quella sera di giugno di 37 anni fa.
La verità è che questa maledetta tecnologia, i social e le altre diavolerie, che quasi per forza siamo costretti a frequentare, ci hanno peggiorato notevolmente l’esistenza da questo punto di vista, avvitandoci tutti in un vortice nel quale non c’è chi ha ragione o chi ha torto ma dove le peggiori pulsioni vengono fuori senza alcun controllo.
Non ne posso più di stare a litigare con gente che nemmeno conosco. Se vado in un bar e parlo con un amico, so esattamente chi ho di fronte, so quali parole posso usare e so che peso dare a quelle che usa lui. Ma su questi maledetti social non c’è scampo. Mentre stai scambiando opinioni con un tuo vecchio amico del liceo arriva uno che manco sai chi è e comincia ad offenderti e tu non puoi difenderti. O scendi sul suo terreno o rinunci alla discussione. Ma come fai a discutere con uno che ti scrive: “ci sono bambini dal carattere forte ed altri deboli ed insicuri. Questi ultimi hanno bisogno di associarsi a qualcuno o qualcosa di forte o di vincente per superare la loro debolezza. Ed iniziano a tifare la squadra più titolata per poter dire: io sono meglio di te”. E il bambino nella 127 del padre? E l’ansia dello zio sull’1-0 per il Palermo?
Ecco, se una volta mi divertivo, se ancora oggi riesco a sorridere davanti ad uno sfottò simpatico, e a prendere ed essere preso in giro da amici, adesso non ce la faccio più a vedere offesa quella maglia che amo, e quella mia “fede” calcistica per la quale esigo rispetto. Lo stesso rispetto che io concedo agli altri. Non ce la faccio a vedere trasformato un gioco che amo in una continua offesa, denigrazione, “satira” volgare e squallida.
Ma, soprattutto, non ce la faccio più a vedere mortificata una delle cose a cui tengo di più: la mia appartenenza territoriale. Mi è stato detto, in questi giorni, come ogni volta che si avvicina una sfida tra Napoli e Juve che non avrei dignità perché tifo per una squadra del Nord. Ultimamente sono stato chiamato pesce gatto, questa la sapevate? Eh sì, secondo questa teoria, che mi è stata recapitata in bacheca, il napoletano juventino è come il pesce gatto in quanto, pur potendo spaziare “nell’infinità del mare, preferisce laghi e fiumi, ha bisogno di argini, di confini, di padroni, è un pesce che preferisce l’acqua dolce al sale”. E ancora: “È un pesce spazzino: la sua prima alimentazione comprende larve, vermi e piccoli molluschi e in età adulta piccoli pesci vivi e morti oltre ad invertebrati e sostanze organiche di ogni tipo. Si alimenta soprattutto la notte o in giornate nuvolose“. Secondo questa teoria, al pesce gatto si contrappongono i cefali ai quali “piace il pane col formaggio, possibilmente con una strusciata di pomodoro e un filo d’olio, senza dimenticare il sale, e si fanno vedere solo nelle mattine soleggiate, quando il mare è una tavola e una “bella marenna”, a due passi dal bagnasciuga, è una porzione di paradiso concessa ai mortali”. Bella, eh?
Non passa momento di festa per una vittoria della mia squadra senza che qualcuno mi avvisi che lì, in quello stadio, ci sono stati cori inneggianti al Vesuvio o persone con sacchetti di spazzatura a mo’ di sfregio. Io sarò fatto male, ma per quanto idioti e volgari questi atteggiamenti non mi sconvolgono. E sapete perché? Perché io credo, cari amici, che l’amore per questa benedetta e disgraziata terra non si dimostri con il colore della maglietta indossata la domenica allo stadio; peccato che tanti di quelli che fanno crociate sul web in favore di Napoli tra qualche mese saranno pronti a vendere il proprio voto per un interesse personale; peccato che quando nella nostra terra è stata sepolta la morte per le nuove generazioni si siano girati dall’altra parte; peccato che molti di quelli che sembrano paladini del sud spesso sono in affari con la malavita. Ah se solo una minima parte di quella orgogliosa e encomiabile difesa della propria terra si tramutasse in coscienza civica e azioni concrete, avremmo fatto un enorme passo avanti! E invece: una bella maglietta azzurra la domenica allo stadio e i nemici di Napoli stanno dall’altra parte!
E tu che hai dedicato la tua vita ai bambini più sfortunati della tua città, che hai lottato rischiando sulla tua pelle per le questioni ambientali, passando le notti per strada beccandoti le manganellate della polizia che voleva far passare camion carichi di morte, che tornavi a casa con gli occhi pieni di lacrime e non solo per i lacrimogeni, che hai provato a suscitare nei più giovani l’amore per la politica “vera”, tu che moriresti per questa terra e forse hai cominciato a farlo nel momento preciso in cui ha deciso di rimanere a viverci, tu, mentre loro cantano che “difendono la città”, sei il nemico, perché nel cuore hai quella maglia, quei colori che hai iniziato ad amare una lontana sera di giugno.
Ma, io vi giuro, quel bambino di 9 anni non ne sapeva niente di Borboni, unità d’Italia, Lega Nord e Padania. Niente. Lui si innamorò di una maglia, di quello che gli sembrava un gioco, e non gli interessava più nulla.
Ecco, cari amici, tutto questo non mi piace più e ve lo volevo dire. Non mi piace questa spirale di odio, sì, proprio odio, che percepisco, da un lato e dall’altro, e nella quale inevitabilmente finisco quando invece io vorrei parlare di calcio, di schemi, di giocatori. Di passione.
Tutte le storie dovrebbero avere un lieto fine, direte. E, forse, io l’ho trovato. Una sera di qualche mese fa. La Juve si qualifica per la finale di Champions e, guardando negli occhi di mio figlio, tifoso del Napoli, ci trovo una sincera soddisfazione. Gli chiedo come mai è contento, del resto non era la sua squadra. E lui, guardandomi quasi stupito mi risponde: “Una italiana in finale non me la ricordavo. È bello poter tifare per una squadra del tuo paese. Ma sarà difficile col Barcellona, eh?”.
Ecco, lì ho capito due cose. Tante, forse, ma due in particolare. La prima è che i bambini, come al solito, sono migliori di noi adulti. E la seconda è che io voglio vivere in mezzo a quegli occhi, quelli di mio figlio, quelli del bambino di 37 anni fa. Voglio vivere lì, nelle pieghe di quegli sguardi, dove tutte le cose sembrano illuminate da una luce che le fa essere più vere.
Ah e un’altra, ho capito, ma, questa, definitiva. Che ogni mio sforzo da oggi in poi sarà teso a far sì che quella luce, negli occhi di mio figlio non si spenga mai. Perché se vale per il tifo, a maggior ragione deve valere per tutte le cose della vita.
di Francesco Alessandrella