Di Rocco Santangelo
“Game Over”. Gli interisti hanno inneggiato così, a casa loro, la sconfitta degli altri. In mancanza di vittorie o di voglie auto-celebratrive, nel giorno della scampagnata milanese per l’ottavo scudetto, lo sfottò è stato decisamente sul pezzo; molto meglio del ricordo all’amico caduto in battaglia dei neonazisti di “Blood and Honour” durante il loro derby, qualche settimana prima. Magari la proprietà cinese si è risentita.
Nei
miei anni milanesi mi sono trovato a guardare finali di coppa dei
campioni a casa di juventini insieme a milanisti e interisti che avevano
la bottiglia di spumante pronta in frigorifero. Ho visto partite a casa
di milanisti che abbandonarono la Fossa dei Leoni assaliti dai nuovi squadrismi. Ricordo ancora la giurassica epoca di Tele +,
quando frequentavo saloni improvvisati con maxischermi e sedie
raccattate nelle scuole lucane. Eravamo suddivisi dentro stanze per
interisti, milanisti o juventini. Ogni gol si celebrava nella stanza
avversaria. Gli abbracci amici erano belli, ma ciò che più contava era
urlare in faccia agli altri delusi. La gioia non si materializzava senza lo sconforto dell’avversario.
Sono passato per bocciofile e teatri romagnoli adibiti alle visioni
collettive della Vecchia Signora. Mi sono trovato dentro pub dell’east end londinese a saltare di gioia per un gol tra non amati Viking. Ho ammirato Drogba
durante uno Juventus-Chelsea in una saletta birmana insieme a un
giovane monaco buddista che esultò sereno al suo gol. Conto anche
alcune rare incursioni negli stadi: la principale quella di Roma, contro
l’Ajax. Tanti anni fa.
La mia ignoranza della curva quindi non mi
permette di capire come mai tifoserie avversarie si diano appuntamento
in autogrill per darsele prima o dopo una partita. Non capisco che tipo
di conti o offese debbano regolare. Non so come la fedeltà a dei
colori, alla maglia e alle bandiere costruiscano un’appartenenza patria:
un lignaggio che discende dai gol di Del Piero o quelli di Ronaldo
(il 9, non il 7). Non mi spiego come questi ricordi comuni producano
onore e immedesimazione del tifoso con il suo eroe calcistico. Ammiro
l’organizzazione di cori, le coreografie, gli sfottò. Ma in quale
fessura il tifo diventa febbre? C’è più razzismo tra tifosi della Pro
Patria e dell’Alessandria, tra Napoletani e Romani o tra Salviniani ed
Africani? C’è chi dice che più che nord contro sud, la Storia d’Italia
sia narrabile nelle sfide tra i signori delle città.
Quando vivevo a Bogotà, Colombia, una collega antropologa studiava le cosiddette “barras bravas”
(i tifosi incazzati) e prima del derby Santa Fe contro Millonarios, per
chi come me viveva nei pressi dello stadio consigliava di chiudersi in
casa. Non era più l’epoca in cui Escobar, Rodriguez Orejuela e Gacha
si contendevano la supremazia delle loro città, rispettivamente
Medellin, Cali e Bogotà con le loro squadre di calcio. Qualcosa però
era rimasto nelle appartenenze, tra i quartieri, nei ricordi di epoche
andate e nelle speranze di nuove vittorie. Un pomeriggio i tifosi dei
Millonarios, l’ex squadra di Gacha, decisero di celebrare la nascita
della loro squadra proprio quando stavo per finire di lavorare e mi
stavo incamminando verso casa. Mi ritrovai nel mezzo di un’oceanica
invasione dai colori bianchi e blu nel centro della città tra visi non
propriamente in festa. Nel giro di pochi minuti ogni negozio e bar
chiusero. Senza quei colori non si poteva camminare lungo l’avenida septima.
Mi rifugiai allora in una cantina e aspettammo tutti il passaggio della
marea. L’improvviso coprifuoco terminò, si rialzarono le saracinesche e
tutto tornò come prima.
“Game Over”. Uno scialbo 1-1 a ritmi pre-vacanzieri. Che nostalgia di De Jong. Perché è finito al Barcellona?