Spiace dover scomodare Elias Canetti per una questione legata al gioco del calcio, ma quello che sta andando in scena sui media nel post-partita di Juventus – Inter è un’applicazione archetipica di quanto può essere falsificante e in malafede un certo tipo di propaganda. Un vizio che nasce da lontanissimo e che nel nostro paese, quando si parla di calcio e politica, raggiunge livelli di totale sovvertimento del senso.
In un suo libro pubblicato da Adelphi, La provincia dell’uomo, Canetti, attratto dall’enorme problema della falsificazione di massa, e partendo dal concetto di riproducibilità tecnica, scrisse: “Un’idea penosa: che la storia, a partire da un dato momento, non sia più stata reale. Senza accorgersene, l’umanità tutta intera avrebbe d’improvviso abbandonato la realtà; tutto ciò che accadde da quel momento in poi non sarebbe affatto reale; noi però non potremmo accorgercene”.
Si riferiva, chiaramente, alla propaganda hitleriana, che come si può leggere nell’opera vastissima e di grande valore di William. L. Shirer sul nazismo, era una perfetta macchina strategica, perfetta nella messa in scena chirurgica di finti casus belli, che servivano poi per scatenare offensive travestite da azioni di difesa.
Per l’invasione della Polonia, per esempio, fu letteralmente messo in scena l’incidente di Gleiwitz, un finto assalto polacco a una stazione radiofonica di confine organizzato dalle SS, prova inequivocabile delle cattive intenzioni polacche nei confronti del Reich.
La storia recente pullula di casi di falsificazione pretestuale (mentire con intento strategico e secondi fini), e poiché il passaggio dalla tragedia collettiva alla farsa è sempre una questione di centimetri, è sufficiente osservare la cronaca politica e calcistica nostrana per ritrovare infinite parodie del modello di falsificazione.
La tendenza a cedere al meccanismo emotivo della post-verità fa il resto: ma nel caso di Juventus – Inter del 5 febbraio è facile notare una notevole differenza rispetto al classico clima inquisitorio che tutti gli juventini conoscono bene e che è fattore di fame sportiva e fortificazione. Il grido di dolore per il torto subito, il vittimismo ossessivo (che è indiscutibilmente il mito fondativo dell’identità interista già descritta qui) non è stato supportato dalle roccaforti dell’informazione sportiva.
Anche in luoghi in cui la Juventus non riceve sconti, come La Gazzetta dello Sport, il Corriere dello Sport, o le moviole televisive nei poli romani (RAI) e milanesi (Mediaset e Sky), i vari episodi sono stati derubricati come insignificanti, e più o meno tutti i commentatori neutrali hanno considerato l’arbitraggio di Rizzoli privo di qualsiasi influsso sul risultato. Un caso più unico che raro, dovuto per altro all’assoluta difficoltà oggettiva di stravolgere fatti molto evidenti a supporto delle decisioni di Rizzoli (già più consono alla norma il tiro di oggi, a freddo, per una mera questione di ascolti e necessità di fare edicola).
E allora qual è lo scopo di questo revival del piagnisteo di tutto un popolo? Solo il piacere identitario di ritrovarsi insieme dopo 6 anni e vivere la finzione collettiva di una sfida al vertice importante per lo scudetto (sì, era stata incredibilmente dipinta così dall’ambiente tecnico nerazzurro), per poi potersi raccontare di aver visto il sogno sfumar via per colpa del solito complotto? Può arrivare a tanto la costruzione fantastica dettata dal bisogno di una partita decisiva?
No. Allora conoscendo bene l’avversario, e rispettandolo per capacità mefistofelica, proviamo a leggere due obiettivi nel grido di dolore perpetuato dai rappresentanti mediatici dell’universo Inter: 1) il primo, a breve termine, è influenzare la decisione sulle squalifiche di Perisic e Icardi, in vista del ricorso. Criticare il gesto sciocco e poco lungimirante di un capitano rinnegato dalla sua stessa curva per comportamento infantile? Giammai. Meglio fingere di vedere un complotto. 2) il secondo, più a lungo termine, ma in linea con il recente passato, è preparare un clima il più possibile teso, irrequieto, violento, per gli anni che verranno. È opinione comune che l’avvento della proprietà cinese riporterà l’Inter ai fasti dell’era Mourinho, quando nessuno juventino si sognava di discutere la forza e la struttura granitica di una squadra vincente, anche se talvolta le vittorie, nel complesso meritate, arrivavano con gare prive di qualsiasi attinenza con lo sport come accadde in Lazio – Inter 0-2 del 2 maggio 2010 (gara decisiva che si giocò a due giornate dalla fine in un campionato vinto dall’Inter con due punti sulla Roma).
Oggi potenza di Suning è una delle locuzioni più utilizzate in tutto il giornalismo sportivo nostrano, e gli interisti più scaltri sanno bene che quando ci sarà realmente una sfida di vertice, una sfida decisiva per lo scudetto, sarà opportuno arrivarci con una letteratura di scuderia il più possibile piena di leggende, di aggressioni inventate, di torti auto-inscenati, di post-verità introiettate. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: nell’atmosfera machiavellica del calcio italiano esistono sconfitte che sotto certi aspetti valgono più delle vittorie. E in un campionato dove la qualificazione al preliminare di Champions sarebbe già un risultato miracoloso, nulla è meglio di una sconfitta netta accuratamente trasformata in macchina mitologica. Per giustificare le sconfitte del presente o innalzare a feticcio le vittorie passate. Visto che quelle future appaiono, a oggi, ancora semplici, e comprensibili, manifestazioni di desiderio, tutt’altro che vicine a concretizzarsi.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo