Vincere vs fare bene

“Complimenti di che? Quando in spogliatoio vedo i volti tranquilli dei giocatori sconfitti che aspettano di farsi fare i complimenti per la buona prestazione, mi viene un malessere difficile da spiegare”.


Lo ripeto in continuazione come un mantra: giocare per vincere e giocare per “fare bene” sono due sport differenti. Prendendo spunto dalla bella e chiacchierata intervista post-sconfitta di Spalletti di ieri (la citazione è sua), ne approfitto per approfondirne il motivo in un post che per qualcuno sarà solo un concentrato di aria fritta, ma che invece trovo sia esattamente quello che serva per costruire una mentalità vincente.

Intendiamoci subito: giocare per vincere non è da tutti nè per tutti e la favoletta che anche chessò il Chievo possa vincere uno Scudetto impegnandosi e solo grazie ad una grandissima forza di volontà è, appunto, una favoletta. Restiamo alla realtà: si possono fissare anche obiettivi diversi dalla vittoria a seconda del valore della rosa, del “fatturato”, delle necessità. Se decidi di porti come sfida la vittoria finale o se dopo aver iniziato bene la stagione ti trovi nella condizioni di farlo, però, lo devi fare senza vie di mezzo. Come? Iniziando ad esempio a capire che la differenza principale se si vuole vincere è convincersi e convincere chi ti sta attorno che tutto ciò che non sia una vittoria debba essere considerato un fallimento. Non esistono, se l’obiettivo è la vittoria, sconfitte a testa alta e “vittorie morali”: o vinci, o non vinci. “Fare bene” significa vincere; non vincere significa fare male. Chi vince è più bravo di chi perde. La zona grigia, tanto amata da filosofi e citatori di de Coubertin, va messa da parte e lasciata a quelli del “fare bene”.

Pare semplice, pare un gioco di parole, eppure non lo è. Anni di sconfitte portano ad accettare la mediocrità, l’inferiorità, a rifugiarsi in teorie complottiste e soprattutto a credere sia impossibile vincere e allora perdere bene è quasi lo stesso. Non lo è. Perdere è perdere. Ed è tanto radicato questo modo di pensare sbagliato (anche tra i giornalisti) che si arriva al punto di ieri in cui Spalletti deve ricordare come perdere due partite per 2-0 non sia accettabile, altro che “teste alte” e sorrisi. A Roma è sembrato un alieno sceso dallo spazio, eppure non ha detto che la semplice verità, con la massima onestà intellettuale e sfuggendo alle logiche e ai ragionamenti da perdenti che inquinano l’ambiente della Capitale (e non solo).

Si confonde spesso, infatti, il significato di sportività con quello di accettazione della sconfitta. Chi deve e vuole vincere, odia la sconfitta. Non l’accetta perchè dipende in gran parte da se stessi. Non è contento perchè lo sarebbe stato se avesse vinto. Qui invece si demonizza l’eccessiva (!!!) voglia di vincere (es. della Juventus, del motto della Juventus, ecc…) come fossero un male o addirittura “antisportivi” e si arriva all’eccesso per cui alla fine si arriva all’esaltazione gli sconfitti, perchè più simpatici, più “deboli”, quasi a volerli rincuorare e a voler fare accettare loro e all’ambiente un risultato diverso da quello sperato. Tutti modi di fare e pensare, appunto, da perdenti. Capire quando si fissa un obiettivo importante che il non raggiungerlo sia un fallimento e che i “ma” e i “però” servano solo a sfuggire da questa realtà è allora il primo ma più importante passo per crescere.

Ieri Spalletti, bravissimo, ha educato squadra e ambiente provocando uno shock culturale. E’ stato un passo importante: non basta ma è il primo, il più difficile. Se verrà capito da tutti, sarà il primo mattone di possibili successi in futuro. Possiamo perciò dare il benvenuto alla Roma nel campionato di quelli che vincere è l’unica cosa che conta, quando vincere è il tuo obiettivo. Questo significa quella frase di Boniperti. Ed è sportivissima e meravigliosamente vera, con tutto il rispetto possibile per quelli che alla fine, pur lottando, non ci riescono (è capitato anche a noi, più di un’ottantina di volte in quasi 120 anni di vita. Ed ogni volta ci ha fatto incazzare).

La rivoluzione Spallettiana

Negli anni bui della Juve cobolliana, quando si cambiava un allenatore (o più) all’anno, speravo praticamente tutte le estati che il tecnico prescelto per l’anno seguente fosse Spalletti.

Mi aveva colpito, nella sua prima esperienza romana, la capacità di allontanare gli alibi. Che fossero le assenze, i mercati estivi non proprio entusiasmanti, gli avversari ben più ricchi, alcuni arbitraggi piuttosto sfortunati. Non importava: si andava con mille infortunati contro l’Arsenal, e Marco Motta pareva Maicon.

In questo sito – chi ci legge lo sa – discutiamo praticamente su tutto, dalla tattica ai giocatori da comprare, da quelli da vendere alla bravura dell’allenatore: c’è perfino uno dei fondatori che tifa per l’allenatore della Fiorentina e un esterno offensivo del Bayern, figuratevi.

Su un aspetto, però, non esistono divergenze: gli alibi sono dannosi. Non hanno niente di positivo (se si esclude potersi divertire a dare dei ladri agli avversari, ovviamente), e producono inevitabilmente conseguenze negative nella squadra, che si sente deresponsabilizzata ancor prima di scendere in campo. Una lezione ce l’ha data Velasco, e l’abbiamo raccontata qui.

Gli alibi, lo abbiamo ricordato in apertura, non riguardano solo gli errori arbitrali, che pure sono il refugium peccatorum di mezzo calcio italiano: per fare un esempio caro a noi juventini, non ci piacque molto l’approccio di Antonio Conte – tecnico che dovremo ringraziare eternamente – prima del doppio confronto col Bayern. Sono più forti, benissimo, e non c’è nulla di male a farlo presente. Ma quella rassegnazione ostentata già nelle dichiarazioni pre partita, quelle battute poco fortunate sul ristorante da 10 euro, sono l’unico vero “peccato” che ricorderemo della sua trionfale esperienza in bianconero. E’ un alibi anche quello, perché se so che gli altri sono di un’altra categoria, perdo nettamente e non ho neanche rimpianti, tanto lo sapevo già. Per il resto, si tratta del miglior motivatore che io ricordi, e proprio per questo brucia quell’approccio così a testa bassa.

Gli esempi potrebbero essere infiniti: Garcia, per riferirci invece al predecessore di Spalletti, fa una prima stagione fantastica, sorprendente, che frena solo alla fine, quando comincia a pensare che forse il Sassuolo non si impegnerà con la Juve, visto che qualcuno aveva già escluso il proprio super bomber (Paulinho) dalla sfida contro i bianconeri. L’anno successivo parte bene, le vince tutte, fa bella figura anche in Champions, fino a quando non perde 3-2 a Torino e comincia quella serie infinita di interviste, tweet, riferimenti – ben supportato da diversi suoi giocatori e da un ambiente particolarmente predisposto – alla partita che ha fatto male al calcio italiano. Non sapremo mai come sarebbe andata a finire, ma di certo ci avrebbe spaventato di più un Garcia arrabbiato per le disattenzioni della sua squadra (che negli ultimi 15 minuti concede una traversa a Morata, una grande occasione di Tevez e il tiro al volo di Bonucci dal limite), piuttosto che un novello paladino dei deboli contro i forti, dei buoni contro i cattivi.

Da lì, invece, in un’ondivaga alternanza di lagne e proclami (dal violino ai tweet polemici fino all’improvviso“ho capito che vinceremo lo scudetto”), il carisma esibito in oltre un anno di conferenze stampa svanisce, la squadra ha il suo alibi, anche se perde 1-7 ha il pubblico dalla sua parte, e per diversi mesi si ferma lì, esce dalla Champions, mettendo quasi a repentaglio il secondo posto. Non si riprenderà più del tutto, nonostante alcuni lampi (la squadra è forte, e alla decima della nuova stagione è prima).

Spalletti torna alla Roma, a gennaio 2016, quando l’ambiente è a terra, la squadra è quinta, e il gioco e la determinazione sono ormai un lontano ricordo. Subito, prima ancora di ottenere qualche giocatore sul mercato, va a Torino contro la Juve lanciatissima. Molti tifosi temono l’imbarcata, lui dà già un ordine visibile alla squadra, che non crea pericoli ma rischia poco e perde a 10 minuti dalla fine. Alla fine, senza dare colpe alla situazione ereditata o al mercato che langue, afferma che si aspettava “qualcosa di più” e pensava “di poter fare meglio”. Invece di coccolare i suoi, ricorda a Florenzi che “diventerà un campionissimo se smette di andare a protestare. Le proteste non contano nulla, non bisogna perdere di vista gli obiettivi fondamentali”.

Quando pochi giorni fa gli hanno chiesto della Juventus, avversario storico che a Roma talvolta è bastato denigrare per diventare eterni, lui ha risposto che “la Juve è forte di testa, oltre che cattiva e tosta, e la società ha sempre trasmesso questo ai giocatori. E chi veste quella maglia lo dimostra puntualmente”. Complimenti al carattere dei giocatori, alla società, all’importanza di quella maglia: un altro mondo, rispetto a come siamo abituati.

Se alla vigilia di una partita si parla di un’intervista che potrebbe creare dei danni alla squadra,allontana dal campo chi l’ha rilasciata. E non importa se si tratta di Totti o di un ragazzino, perché – afferma di fronte a una platea attonita già pronta ad accusarlo di lesa maestà – “io devo rispetto alla squadra, non solo a uno”.

Poche regole, semplici, rivoluzionarie: non si protesta, non si cercano alibi, non ci sono totem, rispetto per gli avversari, il gruppo viene prima dei singoli.

E intanto 7 vittorie di fila, la squadra al terzo posto, ancora a 8 punti dalla Juve solo perché i bianconeri per ora non hanno mai rallentato, altrimenti chissà.

Fino a Madrid, dove senza mezzo centrocampo gioca alla pari contro Modric Kroos & co e perde perché gli avversari segnano mentre i suoi attaccanti sbagliano almeno 3 gol fatti. Mentre gran parte dei media comincia a compiacersi della prestazione, degli applausi a Totti che entra, della sfortuna che “fa tanto Roma”, lui spezza la retorica del “grazie lo stesso” e spiazza l’intervistatore che gli fa i complimenti: “complimenti di che?”. E poi “Quando in spogliatoio vedo i volti tranquilli dei giocatori che aspettano di farsi fare i complimenti per la buona prestazione, mi viene un malessere difficile da spiegare”. Ancora: “Non ci rendiamo conto dell’occasione che abbiamo avuto questa sera: queste partite sono scorciatoie per importi all’attenzione mondiale, occasioni che ti danno più di 38 partite in campionato, e dovevamo giocarcele diversamente. Ora zitti, e torniamocene a casa”.

Ok, bravo Spalletti, dirà qualcuno, ma cosa c’entrano queste cose con un sito sulla Juve?

Molto, ma molto di più di quanto si possa pensare.

Massimo Zampini